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Storia del golpe in Cile e dell’assassino di Salvador Allende e dei suoi fedelissimi

Storia del golpe in Cile e dell’assassino di Salvador Allende e dei suoi fedelissimi

Poco dopo mezzogiorno dell’11 settembre 1973, nel palazzo presidenziale della Moneda in fiamme, Salvador Allende dà l’ultimo ordine ai Gap (la sua scorta) e ad alcuni agenti della polizia investigativa restatigli accanto insieme ai suoi consiglieri: “Uscite e consegnatevi. Io scenderò per ultimo”. La fila lungo le scale è aperta da Miria Contreras, “la Payita”, la sua segretaria. Ha in mano un bastone con annodato un grembiule bianco.

In coda alla colonna Patricio Guyon, il medico personale del presidente. E’ lui a sentire arrivare dal Salone Indipendencia il grido di Allende prima del suicidio. Corre indietro per le scale e trova il cadavere. La mattina dopo Pinochet è nel cortile del reggimento Tacna, controlla la presenza dei prigionieri della Moneda. Li hanno fatti camminare in ginocchio con le mani alzate gli ultimi cento metri fino al portone. Per suo ordine gli agenti della investigativa sono già stati portati via. Chiede: “Chi sono questi?”. Un militare risponde: “Mio generale, questi sono i Gap e i consiglieri di Allende”. Pinochet assiste alle torture e ordina: “Estos huevones me los fucilan todos”. “Questi coglioni me li fucilate tutti”.

L’ha raccontato Paolo Zepeda, uomo della scorta sopravvissuto perché finito per errore nel furgone diretto allo Stadio di Santiago dove furono ammassati centinaia di arrestati. Testimonianza coincidente con quella data dal colonnello Fernando Reveco Valenzuela al giudice Juan Guzman nel maggio del 1999. I prigionieri della Moneda vengono caricati su un camion militare marca Pegaso e coperti con un telo. Su una jeep viene caricata una mitragliatrice Rheinmetall. Un’altra jeep con a bordo Espinoza, che poi sarà il secondo di Manuel Contreras nei servizi segreti di Pinochet, chiude il convoglio diretto al nord di Santiago, nel campo militare di Peldehue. E’ chiaro che li stanno per uccidere.

Davanti alla base aerea di Colina uno dei prigionieri tenta di prendere un’arma a un militare. Gli sparano. Non muore. Il convoglio non si ferma. Arrivati, liberano le caviglie e fanno scendere tutti. La mitragliatrice è pronta, montata su un tavolo preso dal refettorio. Li fanno camminare uno ad uno fino a un pozzo secco profondo lì davanti. Il sergente Herrera ha l’ordine di sparare a uno per volta, alle spalle. Dopo il quinto, crolla: “Ne ho uccisi cinque, non posso continuare”. Viene sostituito. Gli ultimi prigionieri prima di dare le spalle alla mitragliatrice gridano. “Viva la rivoluzione socialista, viva Allende”. Dal pozzo salgono lamenti, non sono tutti morti. Qualcuno si avvicina e spara dall’alto a chi si muove ancora. Una granata è lanciata sul fondo. Silenzio.