La testimonianza
Un giorno nel carcere di Udine, magazzino di corpi senza speranza
Si trova nel centro della città, eppure è invisibile. Le persone parcheggiano nelle vie adiacenti per evitare i pedaggi, non curanti delle vite parcheggiati lì dentro
Giustizia - di Matteo Dordolo
Che cosa ti lascia il carcere una volta che ci sei entrato? Rispondere è profondamente difficile. Come profonda è la disperazione che serpeggia tra chi in carcere è costretto a viverci. Molti direbbero per scelta. Tuttavia, entrandovi si comprende come nessuno, se non per puro masochismo, intraprenderebbe la scelta di vivere in un istituto di pena italiano. Questo vale anche per il carcere di Udine. Luogo di reclusione collocato nella prossimità del centro cittadino, a due passi dal teatro, dalla Facoltà di Giurisprudenza in cui io studio. Eppure, nella noncuranza più totale, esso, come cancellato, scompare.
Via Spalato, il luogo ove esso si trova, è una strada comoda in cui parcheggiare, dove evitare i pedaggi che affollano il capoluogo friulano. Allo stesso modo, in quel magazzino di corpi privati di ogni speranza e prospettiva di vita, sostano gli abitanti della Casa circondariale. archeggiati in attesa di una sentenza, o di una misura alternativa che possa permettergli di varcare la soglia anche solo per qualche giorno. Tuttavia, lì sono e lì, secondo l’opinione comune, devono restare. Non come me, che ci sono entrato in visita il 16 agosto con Nessuno tocchi Caino. Io non resto. Io sono lì per vedere. Di questo senso devo dotarmi mentre mi accingo ormai a entrare. Le porte si aprono, le serrature si chiudono.
Il primo incontro non si ha con le persone, ma con i rumori e l’odore, forti e pungenti, che ti colpiscono sin da subito. Poi mi concentro sull’edificio, sulla sua struttura fatiscente e obsoleta, sino a quando non arrivo in prossimità della sezione. Allora entro davvero, ed entro con i detenuti in una quotidianità avvilente, fatta di costrizioni, di giornate perlopiù trascorse stipati in celle sovraffollate, costretti con compagni che non ti sei scelto, in una città che non hai scelto, in condizioni che non hai scelto. Gli sguardi di chi si affaccia dalle sbarre sono spesso vuoti, come privi di qualsiasi volontà. Come se volessero comunicarti che lì dentro la vita non è uno slancio in avanti ma un subire continuo, un ricacciare la testa verso il basso, in silenzio.
Vengono aperte le celle e noi entriamo. Sfortunatamente nel farlo interrompiamo il pasto di alcuni dei detenuti. In quella cella tre su quattro sono stranieri, quello italiano ha una settantina d’anni. Mangiano su un tavolino delle dimensioni di un banco, uno di loro seduto sul letto e chino su una sedia. Lo spazio non è abbastanza, come non è abbastanza quando devo passare dai letti al bagno: per farlo devo piegarmi di traverso. Tutti vogliono che entriamo a vedere. Il tempo non è sufficiente. Noi dobbiamo uscire. Non possiamo restare perché nulla ci condanna o ordina di farlo.
Organizziamo allora degli incontri nelle stanze adibite al tempo libero, proprio nel luogo dove il tempo non puoi scegliere come viverlo, creato dall’umanità per privare una persona della libertà. I detenuti cominciano a parlare dei problemi: sovraffollamento (a Udine il tasso è del 176%), rara concessione dei benefici penitenziari, eccessiva somministrazione di psicofarmaci, alto numero di tossicodipendenti e di persone affette da patologie psichiche, carenza di educatori (1 sui 4 previsti), esiguità del lavoro interno (solo 23 i detenuti che lavorano). Tutti sono accomunati da una cosa: la voglia di dimostrarti che sono meglio della scelta che li ha condotti lì, che si impegnano, che ci provano.
Vorrei aiutarli, dire di continuare, di non rassegnarsi e continuare a sperare. Come farlo in quell’edificio, creato per punire nella dimenticanza, fino a che non ti dimentichi davvero di essere umanità anche tu, di essere parte di chi resta fuori, o di chi come noi tra qualche ora fuori ci tornerà. È venuto il momento, dobbiamo uscire. Devo uscire, con la coscienza affollata di pensieri, di domande sul come si possa davvero pensare che quello che ho visto sia il modo di applicare la funzione, costituzionalmente prevista, rieducativa della pena.
Risocializzare richiede fiducia, volontà di costruire, progettando futuri diversi dai passati di chi ha sbagliato. Ciò che ho visto è il frutto della sfiducia, della volontà di relegare ai margini chi pensiamo ci finisca sempre e solo per una sua scelta. Nessuno sceglie il carcere, tantomeno uno ove le condizioni sono inumane e degradanti. Il carcere lo sceglie chi resta fuori, chi vuole separare giusti e delinquenti, dimenticandosi che così a essere vinto non è il male, ma l’umanità. E noi, i giusti, non saremo innocenti verso questa perdita.