L'addio a 85 anni
Chi era Domenico De Masi: il sociologo tra Olivetti, Marx e Lula
Ieri l’addio. Nell’ultima intervista all’Unità incalzava le sinistre “Giocare di rimessa è perdente, nessun partito li rappresenta più, ma proletariato e sottoproletariato non appartengono all’archeologia...”
Editoriali - di Umberto De Giovannangeli
La cultura poliedrica corazzata di una simpatia che traeva ispirazione dalla sua vantata “napoletanità”. O viceversa. Fate un po’ voi, poco cambia. Perché Domenico De Masi, scomparso sabato scorso all’età di 85 anni, era questo. E tantissimo altro. Nel campo della sociologia del lavoro era un’autorità. Docente emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma già preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione presso lo stesso ateneo, una sterminata pubblicistica di libri.
De Masi ha elaborato un suo paradigma partendo dal pensiero di maestri come Alexis de Tocqueville, Karl Marx, Frederick Taylor, Daniel Bell, André Gorz, Alain Touraine, Agnes Heller e approdando a contenuti originali in base a ricerche centrate soprattutto sul mondo del lavoro. Per la cronaca politica italiana è stato l’ispiratore di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, e naturalmente di Travaglio. Certo i 5 Stelle hanno imparato molto da lui, ma francamente non solo loro.
Negli ultimi venti anni, tanto per dire, De Masi in Brasile viene considerato un intellettuale di riferimento, ed è figura molto ascoltata dal Partito dei lavoratori e dallo stesso presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che, da New Delhi dove era impegnato nei lavori del G20, ha inviato un messaggio di sentite condoglianze alla famiglia, alla sua compagna di una vita, la vedova Susi Del Santo. In Brasile, De Masi resta attratto soprattutto dalla figura di Oscar Niemeyer, architetto di Brasilia, figura che paragona a Olivetti, e di cui teneva una celebre frase nel proprio studio: “Ciò che conta non è l’architettura, ma è la vita, gli amici e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare”. Ciò che De Masi, con il proprio lavoro, la propria vitalità intellettuale e la propria ricerca ha contribuito a fare.
Altra frase significativa per rappresentare il professore, è quella con cui si descriveva nel proprio sito web: “Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma”, motto di Paul Valery. Una rondine, cioè un uccello determinato ma non altezzoso. Non si arrabbiava facilmente, ma indignarsi, sì. Chi scrive ha avuto con lui, molto recentemente, due lunghe conversazioni, diventate interviste, tra le ultime della sua vita, con l’Unità. La presidente del Consiglio lo aveva attaccato pesantemente, scambiandolo per altro con De Rita, per una coraggiosa presa di posizione sulla guerra nel programma serale di Bruno Vespa. Ne parlammo.
“Nei cinque minuti da Vespa, io avevo detto anche che è vigliacco mandare le armi e non andare di persona a combattere. Quando i giovani polacchi, i giovani francesi, andavano a combattere con Garibaldi, venivano loro non è che mandavano le baionette. Noi invece mandiamo le armi e restiamo al sicuro. Borsellino e Falcone, citati dalla Meloni, hanno fatto proprio come ho detto io. Non hanno mandato le armi contro la mafia restandosene a Roma. Sono stati ammazzati in un territorio della mafia. Falcone e Borsellino dimostrano proprio quello che dico io: se uno vuole combattere un nemico deve andarci di persona, non deve mandare vigliaccamente delle armi. Ma la Meloni ha spezzettato strumentalmente quello che avevo detto, distorcendo volutamente e totalmente il mio pensiero. Lei ha voluto usare me per sbeffeggiare i 5 Stelle, senza sapere che io non c’entro niente con i 5Stelle. Non sono un “filosofo dei 5Stelle” come ha detto lei. In primo luogo, sono un sociologo, ma non saprei dire se la Meloni conosca la differenza tra i saperi. E poi non sono il filosofo di nessuno se non di me stesso. Se poi qualcuno vuole prendere qualche idea mia, ben venga”.
L’ultimo colloquio, alcune settimane prima della scoperta di quel male che in pochissimo tempo lo ha portato via, era incentrato su un malessere sociale che fatica a trasformarsi in movimento collettivo. De Masi aveva una sua chiave di lettura. Come sempre, appassionata. “C’è una dispersione, una frantumazione sociale che ha radici lontane e che ha evidenti ricadute politiche e nelle trasmigrazioni elettorali. C’è chi vota a destra, chi protesta astenendosi… È qui che le sinistre dovrebbero aprire una seria, severa riflessione. Che non si limiti a fotografare l’esistente, sperando di poter cavalcare a sua volta quella rabbia sociale che fino a ieri ha fatto la fortuna di Fratelli d’Italia e della Meloni. Giocare di rimessa è perdente. Bisognerebbe aprire un dibattito, e L’Unità che si rifà a Gramsci e Berlinguer potrebbe farsene promotrice, sul perché sia venuto meno un partito che dia rappresentanza al proletariato e al sottoproletariato, categorie che vanno ridefinite al presente ma che non appartengono in quanto tali all’archeologia politica e ideologica. Un partito che sappia svolgere una funzione pedagogica, di guida. Un partito che al momento non c’è”.
Lavoro agile, diritto alla felicità e all’inclusione. E critica spietata al liberismo. De Masi sapeva ascoltare, capire, condividere. L’ultima conversazione telefonica, era la fine di luglio, si era conclusa con un invito: “Se passa da queste parti, mi venga a trovare a Ravello”. Il suo meraviglioso buen ritiro. Non c’è stato tempo. In tantissimi l’hanno salutato per l’ultima volta ieri , al Tempio di Vibia Sabina e Adriano a piazza di Pietra, nel cuore di Roma. Una cerimonia laica, che ha riunito quell’universo creativo con cui aveva sempre interagito. Con passione, senza spocchia professorale.