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Chi era Enzo Jannacci, l’artista raccontato in “Vengo anch’io”

Chi era Enzo Jannacci, l’artista raccontato in “Vengo anch’io”

Iniziamo col dire che Enzo Jannacci manca, manca tantissimo e forse in alcuni casi nemmeno ce ne siamo accorti, di quanto sia mancato e manchi in questi anni il suo genio, la sua ironia, la sua eleganza e la sua umanità. Già, Enzo Jannacci; la genialità che si fa carico di chi fa fatica a stare al mondo, come lui stesso dice nel documentario realizzato dal giornalista e regista Giorgio Verdelli, Vengo Anch’io, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, (Indigo Film e Medusa) e che resterà nelle sale solo fino a domani. Vengo Anch’ io è un insieme di pezzi che mancano a questo paese e alla nostra storia, come Giorgio Gaber, fido collaboratore, compagno di giochi e amico: si fa fatica a vederlo e a non emozionarsi, così come accade per la stessa Milva.

E poi ci sono ricordi che sembrano sgretolarsi ma che in realtà sono fissi negli occhi e nel cuore di chi li racconta a partire dal figlio Paolo Jannacci. E ancora Dario Fo, Nino Frassica, Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Massimo Boldi, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Elio (Elio e le Storie Tese), Vasco Rossi, Paolo Conte, Roberto Vecchioni e Dori Ghezzi, Ranuccio Sodi, Enrico Ruggeri, le parole del fotografo Guido Harari, e anche personalità che sembrano lontane da lui, come un giovane Eros Ramazzotti, Francesco Gabbani, come Ligabue o J-Ax ma Jannacci era Jannacci perché nessuno era lontano da lui.

Il documentario di Giorgio Verdelli sembra raccontare un mondo che non c’è più, che abbiamo quasi nascosto sotto al tappeto, quel mondo fatto di artisti, di anima e sudore, di scarpe e marciapiedi, di cabaret e di viaggi con zero lire in tasca, di artisti che hanno pensato a raccontare non solo il loro malessere ma si sono fatti carico del malessere degli altri, cercando un’altra via per dare conforto, con una nota tanto divertente da sembrare stonata e con un ghigno che poi è divenuto risata. Vengo Anch’io è la storia di un medico chirurgo che poi a un certo punto guardandosi le mani, riflette sul fatto che con i suoi pazienti instaura un legame sempre fin troppo stretto, e che non solo gli interessa operare ma che vuole e cerca di curare quella parte delle persone che ai più sembra trascurabile “io ho a cuore le sorti di quelli che fanno fatica a stare al mondo”.

Quelli che fanno fatica a stare al mondo: chi ci pensa più oggi? Chi ne parla più oggi? E allora Vengo Anch’io serve non solo a ricordare un genio della musica italiana ma serve anche a riprendere un discorso vecchio che forse molti artisti e anche intellettuali hanno dimenticato lungo la via e serve a porsi molte domande che oramai si pone più. È il mondo che racconta Enzo Jannacci, quello della fabbrica, quello dei senzatetto, quel mondo della sua Milano che si è svenduta per qualche cartellone luminoso in più che svetta sui palazzi alti e che ha lasciato al buio uomini e donne, con i cartelli in mano a chiedere elemosine e pietà, per un pasto caldo, due lire e un po’ di considerazione.

Jannacci che nelle sue canzoni si fa portavoce di quelle persone che gli altri vedono ma fanno finta che non esistono: e tutto questo viene fuori in maniera crepuscolare in Vengo Anch’ io. Viene fuori l’occhio lucido e la narrazione carica di malinconia, che sfuma nella tristezza e che si aggrappa come meglio può all’ironia per stare in piedi e per non stare fermi davanti alla sofferenza. È un Jannacci di spalle alla finestra che guarda fuori dal terrazzo, e poi quell’inquadratura sulle mani che parlano “ho giudicato che la vita non fosse un modo di esistere fermi, mentre intorno succedono delle cose, delle situazioni comiche drammatiche, guerre, serpenti, nolenti, vigliacchi, prepotenti e tu stavi lì fermo. La vita non è questa”.

In questa frase, in questo concetto, c’è il compito che ognuno di noi dovrebbe avere, e che Jannacci ha avuto e ha come manifesto della sua arte: non si deve stare fermi. Non siamo niente senza pensare agli altri. C’è un carico emotivo e umano in Vengo Anch’io, difficile da misurare, difficile anche da descrivere, ogni parola, ogni ricordo, ogni silenzio e tutti quegli occhi lucidi e gli sguardi abbassati verso la commozione, sembrano produrre un buco al cuore per chi sta dall’altra parte a vedere. E poi l’essere un genio musicale, uno dei pochi in Italia, addirittura nelle parole di Vecchioni “Jannacci è l’unico genio musicale che abbiamo avuto in Italia “e lo dice in relazione ai fatti (senza sminuire nessuno, attenzione) nel senso che Guccini o De André, grandissimi nella nobiltà della parola, ma erano quelli, Jannacci invece iniziava in un modo e non sapevi come poteva finire, come era nel mezzo, passando da un momento tragico all’ironico cogliendo sempre di sorpresa.

Il jazz, il piano, le risate, gli amici, il cabaret, nessuno escluso e tutti dentro, il teatro, il successo e la discesa, la discesa e la salita ma mai restando fermo. E le canzoni fatte di parole messe su da un’equilibrista che si muove su quel filo che è la vita e che va dal tragico al comico guardando sempre in basso, senza mai avere paura di cadere perché anche se si cade ci si rialza: da Vengo Anch’io, Ho visto un Re, Ci vuole orecchio, Via del campo (insieme a De André), Vivere, El portav le scarp del tennis, Se me lo dicevi prima, Messico e Nuvole, Silvano, L’importante è esagerare, Vincenzina e la fabbrica…una fotografia in bianco e nero di un paese che ha conosciuto la guerra, la povertà, ha attraversato il boom ed è esploso senza accorgersi dei pezzi lasciati indietro da questa gigantesca crescita economica.

La carriera di Enzo Jannacci e la sua arte sono il racconto degli ultimi, dei dimenticati, di chi sopravvive male e di chi non vuole girarsi dall’altra parte, di un’umanità che non vuole stare ferma, perché stare fermi non è vivere. Non faremo spoiler, perché è importante andare al cinema e far conoscere alle nuove generazioni chi è stato e chi è Enzo Jannacci, un numero 10 della musica tutto genio e sregolatezza. Ma un particolare da sottolineare c’è: l’ammirazione di Vasco Rossi nei suoi confronti (non che negli altri sia minore, eh), la commozione e forse più di ogni altra cosa la gratitudine, la gratitudine verso un altro artista, la gratitudine che Vasco racconta con gli occhi di un bambino emozionato, Vasco incredulo quando riceve una lettera dal figlio Paolo, una lettera scritta per Vasco… e poi quella canzone, quel verso che canta al piano in Lettera da lontano “ …Lettera per il tempo che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento… Lettera a Vasco Rossi mi piace sentirgli dire che oggi è spento”.

Tutta la lettera che Enzo Jannacci scrive a Vasco e che Vasco legge in Vengo Anch’io è un concentrato di umanità, ironia, bellezza e di chi ha voluto far sapere ad un altro artista di averlo riconosciuto, di aver visto la stessa verità. Vengo Anch’io racconta la storia di un 10 della musica italiana, fatta di dignità, struggente bellezza, riconoscenza, amicizia e di un uomo che non è mai stato fermo davanti al dolore degli altri, non solo come medico ma anche come artista.