Il Pci e il golpe in Cile
Storia del compromesso storico: dall’avvento di Pinochet all’accordo tra Berlinguer e Moro
Dopo il golpe di Pinochet, il segretario del Pci si trova stretto in una tenaglia: da una parte la minaccia del sovversivismo dall’alto capace di tagliare le ali al movimento operaio, dall’altra il sovversivismo dal basso che rilancia la lotta armata per la conquista del potere
Editoriali - di Michele Prospero
Capita in politica che un’ipotesi errata produca comunque degli effetti benefici. I “fatti del Cile” indussero Berlinguer a una lettura pessimistica circa la tenuta del quadro democratico in Italia. La ineluttabile conversione all’autoritarismo di fasce moderate, dinanzi a un’avanzata del movimento operaio, era un assioma in sé problematico cui il golpe avallato dai democristiani cileni sembrava però conferire una qualche (solo apparente) solidità empirica.
Anche le formazioni più radicali a sinistra del Pci interpretarono gli accadimenti di Santiago come una deriva verso la fascistizzazione della repubblica. Il volto repressivo del potere smontava le illusioni sulla trasformazione gestibile attraverso i ritmi della lunga marcia nelle istituzioni. I miti della “guerra civile”, della “lotta armata” e del “partito dell’insurrezione”, già evocati a cavallo tra gli anni 60 e i 70 da Potere Operaio (a partire dall’inno: “Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole, ma piogge di piombo”), nel 1973 erano diventati la cruda realtà, con la proliferazione delle sigle e l’intensificarsi delle iniziative di settori politici passati al sabotaggio e all’azione violenta.
Nella riflessione affidata da Berlinguer alle colonne di Rinascita, gli anni Settanta erano scivolati entro una delle “fasi critiche”. Doppia era la minaccia: il sovversivismo dall’alto, con gli organi dello Stato sul punto di slittare verso una contrazione degli spazi di libertà, e il sovversivismo dal basso, con la moltiplicazione dei tentativi di insubordinazione ostili alla democrazia borghese. Il Pci cercava di contenere le insidie di una diffusa mobilitazione collettiva ispirata alla fascinazione per la conflittualità irregolare.
Un classico negli anni 70 era la riscoperta del pensiero realista di Lenin, volto a legittimare l’opzione del Pci per una battaglia democratica contrapposta alla prassi della violenza politica. Anche Napolitano, nelle pagine introduttive agli opuscoli del rivoluzionario russo apparsi per i tipi degli Editori Riuniti, ne utilizzava il contributo teorico in uno sforzo di moderazione. Per giustificare l’offerta all’avversario di un patteggiamento politico, lo stesso Berlinguer si copriva a sinistra ricordando “la lungimiranza e sapienza tattica” di Lenin. Egli, dal regista dell’Ottobre, recuperava le tattiche della “scienza della ritirata”, indicata quando i rapporti di forza sono tali da sconsigliare accelerazioni.
Il disegno berlingueriano proponeva un passo indietro, circa i tempi della cesura anticapitalista, non un riflusso rispetto al traguardo del grande balzo in una società nuova. Il negoziato con il centro cattolico era in lui carico di ambizioni rivoluzionarie. L’aporia originaria del compromesso storico risiedeva proprio in questa convivenza tra una idea difensiva (preservare l’ordinamento fragile dalla slealtà costituzionale di attori eversivi che facevano presa sui moderati) e una visione offensiva (determinare una frattura qualitativa con la transizione al socialismo).
Da un lato, il mondo centrista era reputato come un microcosmo esplosivo che andava salvato dai “gruppi retrivi” avversi al cambiamento sociale e oramai preparati al colpo di mano; dall’altro, proprio a questo segmento della popolazione, disposto ad essere sedotto dalla reazione, veniva recapitato l’invito a stipulare un’anomala mediazione che, difendendo la democrazia dai nemici intestini, assicurava una contestuale mutazione degli assetti fondamentali del sistema economico-sociale.
Il compromesso storico non si configurava quindi come una proposta normale di governo, nel segno dell’alternanza, ma accarezzava la suggestione di una modifica complessiva dell’organizzazione sociale. Al Psi, che invocava l’“alternativa di sinistra”, Berlinguer rammentava che l’avvicendamento di coalizioni con in dote solo il 51% dei voti, oltre che esposta a pericolose regressioni, era da ritenersi l’anticamera del moderatismo. Il gioco del ricambio tra maggioranza e opposizione implicava infatti l’accettazione non solo della democrazia-metodo, ma anche delle strutture portanti del modello capitalistico. Questa formula rigida, poco permeata dalle categorie politologiche più sofisticate, si dimostrò ben presto un elemento di freno nella manovra comunista.
Nel 1976 le elezioni consegnarono una situazione politica bloccata, con il Pci al 34,4% e il Psi alle prese con la dottrina degli “equilibri più avanzati” che escludeva un governo senza i comunisti. La somma dei parlamentari di sinistra e di estrema destra impediva qualsiasi esecutivo: si trattava di una maggioranza negativa che – va da sé – in alcun modo poteva tramutarsi in un’eterogenea aggregazione positiva. Lo scenario di Weimar fu evitato grazie all’accortezza del Partito comunista: con l’astensione, prima, e con la partecipazione alla maggioranza, dopo, Botteghe Oscure smentì la definizione coniata da Giovanni Sartori del Pci come “partito anti-sistema”, disponibile a far saltare la stabilità istituzionale.
Questo aspetto fruttuoso della strategia del compromesso storico (concorrere al consolidamento democratico, coltivare preoccupazioni di sistema) camminava insieme ad un’anacronistica concezione di una democrazia in bilico, pronta a sfaldarsi nell’immediato per la convergenza destabilizzante di apparati interni ed esterni. Berlinguer trascurava che, a trent’anni dalla Repubblica, l’Italia era ormai diventata un paese tra i più longevi in quanto a tradizione democratica accumulata, e vantava robusti legami con il laboratorio europeo (nel quale stavano entrando le recenti democrazie di Grecia, Portogallo e Spagna). Quando, solo alcuni anni dopo, in Francia il blocco social-comunista conquisterà l’Eliseo, con il Partito comunista francese accasato in diversi ministeri, nessun esercizio di tipo cileno verrà mai prospettato.
Nella stagione della solidarietà nazionale, il Pci arrancava con uno strumentario arrugginito in confronto alla superiore duttilità e modernità dell’impianto analitico di Moro. Il leader Dc non pensava ad una grande coalizione permanente, tantomeno alla confluenza delle tre forze politiche più ampie in direzione del socialismo. Alludeva, più realisticamente, ad un passaggio politico delicato con il quale schivare un collasso delle istituzioni repubblicane. La “terza fase” era per Moro la conseguenza dell’avvenuta legittimazione del Pci, proprio a seguito dell’apporto dei comunisti italiani al superamento della crisi di sistema del 1976. Ricorrendo a parametri molto più freschi, Moro considerava l’incontro occasionale con il partito di Berlinguer (in analogia con la “Grosse Koalition” tedesca) come requisito per gettare le basi sistemiche di una competizione per l’alternanza programmatica tra soggetti che si riconoscevano reciprocamente.
Lo schema del segretario comunista era più arcaico giacché nutriva la speranza della inaugurazione del socialismo come compimento della rivoluzione democratica interrotta nel dopoguerra a causa della separazione brusca dei tre grandi partiti popolari. Mentre Moro aveva ben chiaro che l’inclusione del Pci nella maggioranza rappresentava l’unico equilibrio possibile per garantire la governabilità democratica, Berlinguer sovrapponeva a questa condizione di intesa imposta dai numeri un’aspettativa di transito ad una diversa società.
La mancanza di innesti di una moderna cultura politica creò una faglia con le nuove generazioni, che decisive si erano rivelate nel successo del 1976 ed erano ora insofferenti verso la parentesi consociativa. Mentre le giunte di sinistra comprendevano le inclinazioni dell’universo giovanile, il Pci – sebbene tra i funzionari comunisti una cifra sempre maggiore provenisse dall’arcipelago movimentista – non percepì le avvisaglie di “post-materialismo” che affioravano nel ribellismo urbano. Il consumo edonistico, più che i luoghi della produzione in vista della trasfigurazione dei poteri in fabbrica, irruppe nel cuore dei movimenti di protesta.
Al termine della festa dell’Unità del 1977, additando le selvagge condotte metropolitane dei giovani della sinistra extraparlamentare, Berlinguer parlò di “untorelli”, “diciannovisti”, “lanzichenecchi”. Contro l’immagine del Pci come partito d’ordine, si ingrossava la denuncia della repressione e della “germanizzazione” nell’ottica di una torsione neo-autoritaria. La fermezza nel contrasto politico e culturale al partito armato non seppe conciliarsi con il mantenimento delle imprescindibili regole del garantismo giuridico. L’età d’oro del partito di massa – a metà degli anni 70 la totalità degli iscritti era intorno ai 5 milioni – mostrava i primi segnali di usura. Nel referendum antipartitocratico del 1978, il sistema politico rintuzzò a fatica la richiesta di abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (con il 56,4% di No).
Il Pci, che nel 1976 aveva sfondato tra i ceti medi, con difficoltà mantenne il suo radicamento sociale, messo a dura prova dalle politiche dei redditi e dall’accusa di ripiegamenti corporativi. Nel ’78 la “svolta dell’Eur” di Lama segnava il tramonto del precedente antagonismo operaio che aveva dato una sorta di conferma pratica alla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. Dopo l’“autunno caldo” del ’69 e fino al ’75, la quota dei salari sul Pil era aumentata dal 46,3% al 52,4%. Nello stesso lasso di tempo, a fronte di una crescita industriale del 5% annuo, l’incremento salariale medio degli operai si attestava attorno al 9% annuo, con un picco tra il 1970 e il 1973 in media del 15,6% (cfr. S. Colarizi, Un paese in movimento, Laterza, 2019).
Nei limiti di un consociativismo ineguale, il Pci aveva strappato le ultime rilevanti innovazioni dell’Italia repubblicana: il servizio sanitario nazionale, la chiusura dei manicomi, l’equo canone, l’introduzione della legge finanziaria, il controllo parlamentare sulle nomine negli enti pubblici, la riforma della polizia. Quando Berlinguer nel 1981 lanciò l’obiettivo di “rovesciare il sistema di potere democristiano”, lamentava “le tendenze irrazionali le più varie” e collocava il progetto dell’“alternativa democratica” (avviato con la “svolta” del novembre 1980) dentro una congiuntura critica che “ha il carattere della eccezionalità”.
Colpisce l’assenza di una ricognizione più organica sul mutamento d’epoca che si era compiuto in occidente nel giro di pochi anni. Più che una meditazione sui “fatti del Cile”, al Pci è mancata un’analisi sull’Italia dopo le sterzate di Londra e Washington. Con il trionfo di Thatcher e di Reagan, infatti, era ormai concluso il tempo del connubio tra democrazia e capitalismo, e finiva strozzata l’età dei diritti che, attraverso un prolungato ciclo di lotte, erano stati affermati nei “trenta gloriosi”. Non i generali e le prigioni, ma la democrazia minima, grazie alla rivincita delle agenzie del mercato internazionale, era la via maestra suggerita dalla Trilaterale e intrapresa dal capitale per svuotare una classe lavoratrice che era diventata troppo forte.