Tra memoria e futuro
Massimo D’Alema: “In Europa manca un’azione politica coerente”
«Il ricordo del golpe è stata l’occasione a Santiago per cementare un patto tra le forze progressiste sudamericane, in un continente scosso da sussulti autoritari. Una lezione anche per l’Europa»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
In viaggio nella memoria e nel futuro. In un’America Latina che non dimentica antiche ferite ma che non vive nel passato. Dal Cile al Brasile. Testimonianza personale e riflessione politica. È il filo conduttore dell’intervista concessa, tra uno scalo e l’altro, a l’Unità da Massimo D’Alema. Una passione politica e una curiosità intellettuale per quel fascinoso mondo latinoamericano che D’Alema ha coltivato nel corso della sua lunga storia politica, da leader di partito, da ministro degli Esteri, da presidente del Consiglio e, oggi, da presidente della Fondazione Italianieuropei.
11 settembre 1973. L’esercito golpista di Augusto Pinochet assalta il Palacio de La Moneda. L’attacco si conclude con l’uccisione del presidente del Cile, Salvador Allende. Nel cinquantennale di quel golpe e di quel martirio, lei era a Santiago del Cile.
Sono state due giornate, in particolare quella dell’11 settembre, di una grandissima intensità emotiva. Una intensità che viaggia sul filo della memoria per chi, come me, è parte di quella generazione che visse il colpo di Stato in Cile come una tragedia che c’investiva direttamente. Successivamente, nella solidarietà con il Cile si sono costruiti tanti legami umani, tante amicizie. Hanno cementato un rapporto. Per chi, come me, al di là del fatto individuale, è stato chiamato come rappresentante di una generazione, di un mondo democratico italiano che ha fatto molto nella solidarietà per il Cile, essere lì è stato molto forte dal punto di vista emotivo.
Può raccontare un momento particolarmente emozionante?
Nel cortile del Palacio de La Moneda, nel pomeriggio, abbiamo ascoltato l’ultimo discorso di Allende, registrato dai giornalisti che rimasero lì, nel momento del golpe. Sullo sfondo, il rumore degli aerei che attaccavano la Moneda. Abbiamo vissuto molto intensamente l’emozione del ricordo. Ed ho ricevuto – altra cosa che mi ha colpito – molti attestati di gratitudine verso l’Italia. Non solo da parte degli esuli cileni che hanno vissuto nel nostro Paese, ma anche da parte degli argentini. C’era una delegazione delle “Abuelas de Plaza de Majo”, le “Nonne” guidate da Estela de Carlotto. Abbiamo rievocato insieme il fatto che l’Italia è il primo Paese nel quale sono stati processati i militari argentini responsabili del rapimento e dell’uccisione di sua figlia. Noi le siamo stati a fianco, il Governo di allora fu parte civile nel processo. L’abbiamo sostenuta nella sua coraggiosa, indomita ricerca di suo nipote, che avevano tolto dal ventre della madre prima di ucciderla, e che poi era scomparso, adottato da una famiglia di militari. Storie veramente terribili, struggenti, ma anche persone straordinarie, per il coraggio, la forza. Questa signora ha 93 anni. Il suo è stato uno dei discorsi più toccanti, coinvolgenti, tra quelli che si sono succeduti nel giorno della commemorazione. Come lo è stato anche quello di Isabel Allende. Discorsi importanti non solo per la loro forza emotiva, ma anche per la forza politica. Lo dico perché sono un pezzo di memoria importante, che serve a ricostruire un senso di questo lungo percorso che abbiamo alle spalle. Ritengo che sia stata una giornata importante soprattutto per il mondo progressista dell’America Latina. Del resto del mondo c’erano poche presenze. Non hanno invitato molte persone. Anche l’Europa era scarsamente rappresentata, a parte Felipe Gonzales e il sottoscritto, c’era Jean Asselborn ministro degli Esteri del Lussemburgo nonché coordinatore dei ministri degli Esteri socialisti, Tarja Halonen, la prima Presidente donna della Finlandia, anche lei militante socialista, impegnata nella solidarietà, il sindaco socialdemocratico di Amburgo, Peter Tschentscher. Impressionante era la presenza dell’America Latina. Quasi tutti i governi erano rappresentati. C’era un gruppo di presidenti, dell’Uruguay, della Bolivia, della Colombia, del Messico, López Obrador. C’erano due ministri di Lula, il quale era impegnato nel G20 a New Delhi e non avrebbe potuto arrivare in tempo per partecipare. È stato interessante perché, secondo me, lì si è cementato un patto per la democrazia tra i progressisti latinoamericani.
Vale a dire?
L’idea che la lotta per affermare gli ideali socialisti, gli ideali di progresso, deve saldarsi alla difesa e allo sviluppo della democrazia, in un continente nel quale si riaffacciano spinte populiste, autoritarie. Penso a Bolsonaro, ma non c’è solo lui. Anche in Cile la celebrazione è stata divisiva. Una parte della destra l’ha contestata, con un atteggiamento quasi nostalgico delle ragioni del golpe. È un continente nel quale c’è sicuramente una forte spinta progressista oggi, che investe molti dei maggiori Paesi, ma è una spinta che è molto contrastata da una destra particolarmente aggressiva, permeata da sentimenti non democratici. Questo patto dei progressisti latinoamericani per la democrazia, è una cosa molto importante ed è stata, a mio avviso, la parte più significativa, sul piano politico, di questa celebrazione. La memoria del golpe non è qualcosa che appartiene soltanto al Cile o a progressisti internazionalisti in varie parti del mondo, ma è un patrimonio comune. D’altro canto, diversi Paesi latinoamericani hanno vissuto in forme diverse tragedie analoghe. Questo spettro della violenza antidemocratica è qualcosa che grava su tutta la storia latinoamericana. L’altra notazione che vorrei fare è questa: ho avuto modo di conversare con tante persone della situazione internazionale, dell’Europa.
Con quali riscontri?
C’è una manifesta delusione verso l’Europa. Non si capisce perché l’Europa non sia in grado di assumere una iniziativa di pace per l’Ucraina. Questo è un mondo che non è che abbia simpatia per Putin. Anzi, non ha nessuna simpatia per il Presidente russo. Ma rifiuta l’idea di una nuova Guerra fredda, di un allineamento agli Stati Uniti nel nome della democrazia. Fra l’altro, l’assenza degli Stati Uniti all’evento di Santiago del Cile, secondo me è stato un fatto pesante. Biden ha perso un’occasione. Poteva inviare un messaggio, come hanno fatto tanti altri leader del mondo. Poteva essere un’occasione per gli Stati Uniti, per fare in qualche modo ammenda delle loro responsabilità.
In questa parte del mondo, l’idea di fare fronte comune con l’Occidente nel nome della democrazia contro le autocrazie, è un’idea che non passa.
Perché?
Intanto perché hanno sperimentato sulla loro pelle che l’Occidente non è poi così coerente in materia di difesa dei principi democratici e dei diritti umani. Ha dei doppi standard, degli scartamenti incredibili da questo punto di vista. E poi perché sanno qual è la logica della Guerra fredda, che anch’essa hanno vissuto sulla loro pelle, quella che ha giustificato la repressione in tutta l’America Latina, nel nome della lotta anti comunista. L’idea che il mondo possa tornare verso uno scenario di quel tipo, è una idea che viene rigettata. Lo ha affermato molto chiaramente Michelle Bachelet, già presidente del Cile, che ha ricoperto ruoli importanti negli organismi internazionali. Ormai sta crescendo un grandissimo movimento di non allineati. Paesi che non hanno certamente simpatia per la politica nazionalista, aggressiva della Russia, ma che dall’altra parte rifiutano l’idea di un allineamento all’Occidente. Sono Paesi che rivendicano la propria libertà di movimento. Vogliono un mondo multipolare. Rifiutano un ordine mondiale che sia centrato sull’Occidente. Lo percepiscono come qualcosa che appartiene al passato, anche dal punto di vista della forza economica. È un mondo che guarderebbe all’Europa, se l’Europa fosse in grado di essere un po’ più unita nel delineare una propria posizione, non dico antiamericana ma più indipendente, più attenta alla pluralità del mondo. In fondo, queste indicazioni non sono molto diverse da quelle che si hanno all’indomani di quella grande operazione che è stata l’allargamento dei Brics. C’è da riflettere su questo. Nel momento in cui l’appello americano a isolare le autocrazie è lanciato, riceve come risposta il fatto che un sistema internazionale in cui ci sono la Russia e la Cina, si allarga ad un gruppo molto consistente di Paesi, tra i quali diversi alleati tradizionali degli Stati Uniti. È difficile immaginare uno smacco maggiore, una dimostrazione più evidente che questo schema non funziona. Che non è più in grado d’interpretare il mondo e non viene accettato da gran parte dell’umanità. E questo è molto evidente nel “cortile di casa” degli Stati Uniti. A partire dal Messico, dal Brasile…Questo richiamo alla solidarietà occidentale non è raccolto.
Un patto dei progressisti che sembra però non essere recepito come dovrebbe dai progressisti europei.
Intanto, ad un patto dei progressisti per la democrazia, non credo che ci sia qualche progressista europeo che si dica contrario. È interessante anche come approdo della sinistra latinoamericana. Una sinistra che è stata anche percorsa dal mito della guerriglia. Pensiamo all’esito “caudillista” della rivoluzione sandinista. Tutto questo non c’è. È stato rigettato. La sinistra dell’America Latina, quella che vince, quella che governa nella maggioranza dei Paesi, in quelli più importanti, è una sinistra saldamente democratica. E questo è un fatto molto importante. E rivendica, dell’esperienza di Allende, proprio il nesso tra socialismo e democrazia. Che poi fu la cosa che affascinò anche noi, la ragione per cui noi percepimmo la sconfitta di Allende come qualcosa che ci toccava molto da vicino, che toccava anche il senso del realismo della nostra politica. Questa è una cosa molto importante per l’America Latina. Che poi l’Europa non sia in grado di porsi come interlocutore di questa America Latina, questo è un grande problema politico per l’Europa. Perché dal punto di vista dei valori, della civiltà, è chiaro che qui si guarda all’Europa. Ma l’Europa è un po’ come una “supernova”, si vede la luce ma quando ti avvicini non c’è più. Non c’è un’azione politica coerente.
In una nostra precedente conversazione, nel giorno del ritorno in edicola de l’Unità, aveva fatto riferimento alla forte capacità attrattiva dei Brics. Il mondo latinoamericano guarda in quella direzione?
Quel riferimento si è rivelato facilmente profetico. Diciamo che quel mondo quantomeno rifiuta lo schema della non cooperazione. Con la Cina, per esempio, coopera. Poi cooperano anche con gli americani, sono diversi dai cinesi, loro hanno la democrazia. Però rifiutano l’idea di una nuova Guerra fredda. Quindi sono disponibili a tutte le forme di cooperazione. D’altro canto, Brasile e Argentina fanno già parte dei Brics, ed è qualcosa che certamente interessa anche altri Paesi dell’America Latina. Paesi che hanno rapporti commerciali liberi, che rifiutano l’idea della guerra commerciale contro la Cina. Sono Paesi che in gran parte mantengono rapporti con la Russia, non perché sostengono l’invasione dell’Ucraina, ma perché non condividono il modo in cui l’Occidente reagisce ad essa. Da questo punto di vista, sono Paesi che sfuggono all’orbita, alla disciplina occidentali. D’altro canto, alla disciplina del mondo occidentale ormai sfugge la grandissima parte dell’umanità. Bisognerebbe prenderne atto.
Dal Cile al Brasile, ultima tappa del suo viaggio in America Latina. Un Paese, il Brasile, che lei ha sempre avuto molto vicino, a cominciare dal suo Presidente, Luiz Inácio Lula da Silva, Lei che lo conosce da molto tempo, e che gli è amico, come è cambiato in questi anni Lula?
Il Lula che torna al governo del Brasile dopo l’esperienza durissima del carcere, dell’aggressione personale che ha subito, è un leader che ha uno spessore internazionale molto significativo. Che però non ha dismesso la forza del suo impegno sociale, dalla quale deriva la sua enorme popolarità. Lula ha una caratteristica molto importante: è uno dei pochi leader del mondo che è in grado di mobilitare in senso democratico le masse più povere. Restituire a loro una speranza di riscatto ed emancipazione, di migliorare la propria vita, di lottare contro la fame, l’emarginazione, la miseria. Lula rimane questo e in più c’è la statura di un leader internazionale che ora sarà ancor più messa alla prova. Dopo il vertice di New Delhi, è iniziato l’anno della presidenza brasiliana del G20, in una fase così delicata e difficile delle relazioni internazionali. Ho visto recentemente Lula quando è stato a Roma, abbiamo conversato a lungo. In questi due giorni incontrerò il suo consigliere di politica estera, Celso Amorim, di cui sono amico. Ho rapporti con loro molto antichi e questo è un retaggio della storia della sinistra italiana. Lula l’ho conosciuto agli inizi degli anni 90, oltre trent’anni fa. Lui è molto legato alla sinistra italiana, in particolare quella di matrice cattolica. Lula è stato anzitutto un sindacalista cattolico, non è mai stato un marxista, un comunista. Una esperienza, unita a una grande capacità di ascolto, che l’ha portato alla guida del Partido dos Trabalhadores, (PT), che ha unito diverse anime della sinistra brasiliana. Un grande partito nuovo. Quando è venuto a Roma per incontrare papa Francesco, l’ho trovato molto energico, molto tonico, invidiabile per un uomo della sua età, che è persino un pochino maggiore della mia. A proposito di presidenti. L’altro che mi ha profondamente colpito, è il presidente del Cile, Gabriel Boric, che mi ha invitato alla commemorazione. Ha 37 anni, ed è uno che dice “allora io non c’ero”, essendo nato nel 1986. Non è una persona che ha vissuto quella tragedia. Non è la Bachelet che ha visto il padre assassinato, lei è stata in carcere, torturata. È uno che è nato dopo, ma che sente il dovere di recuperare una memoria storica, il valore di queste radici. E questo è molto interessante.
Anche nel rinnovamento, in quella parte del mondo si ritiene che la memoria storica sia un patrimonio e non un orpello da cui liberarci.
Esatto, che la memoria sia un patrimonio. La piena consapevolezza di quello che c’è stato consente di dire quello che è poi stato lo slogan di questa Giornata della memoria: “Nunca más”, “Mai più”. È stata la parola d’ordine che risuonava davanti al Palacio de La Moneda.
Perché tutto questo sembra avere così poco spazio, politico e mediatico, in Italia?
Non mi trascinerà in una polemica sulla levatura del nostro sistema d’informazione, d’altro canto la mia posizione è ben nota. Dico solo che la perdita di memoria storica, soprattutto per vicende come il golpe in Cile che hanno segnato la storia non solo di quel Paese e dell’America Latina, è cosa grave. La solidarietà verso chi lotta per la libertà e la democrazia pagandone il prezzo più alto, dovrebbe essere un aspetto della memoria che andrebbe recuperato almeno dalle forze di ispirazione progressista. Non è stata una tradizione soltanto della sinistra, solo della sinistra in cui ho vissuto io. È stato un modo di essere della democrazia italiana. E di questo ci sono ancora riconoscenti. Lì la memoria funziona ancora. Si ricordano che nelle ore successive al golpe la nostra ambasciata a Santiago dette asilo a centinaia di donne e uomini che altrimenti sarebbero stati perseguitati e probabilmente uccisi. Questa gratitudine è stata manifestata con calore e commozione al presidente Mattarella, nella sua recente visita in Cile, che è stata un grande successo. Ma neanche questa visita mi pare abbia avuto vasta eco sui nostri mezzi d’informazione.
Abbiamo parlato di politica, di memoria. Nel suo viaggio, presidente D’Alema, ha avuto modo d’interloquire anche con intellettuali latinoamericani. Cosa l’ha colpita di più di questa dimensione?
È un mondo intellettuale che riflette queste visioni politiche, impegnato ed esigente da chi ha responsabilità di governo. Un mondo che guarda al futuro. Mi lasci aggiungere a conclusione, che il problema grande per noi, per noi come Occidente, come sinistra europea, è come stare in un mondo che cambia. Perché il mondo è cambiato. Ho visto il report di Goldman Sachs che descrive l’economia nel mondo da qui a cinquant’anni. Prevedono gli Stati Uniti terzi, dopo la Cina e l’India. Nell’elenco delle prime dieci economie nel mondo, in fondo c’è la Germania. Prima ci sono la Nigeria, l’Egitto, il Brasile, l’Indonesia… Questo è il mondo. Come si sta dentro questa trasformazione? Semplicemente rinchiudendosi dentro la fortezza, peraltro sempre più incrinata, dell’Occidente? Oppure si cerca d’interpretare un cambiamento che va inesorabilmente verso il multilateralismo? Il mondo non sarà più dominato da noi. Dobbiamo cercare di abituarci a questo e immaginare quale contributo la cultura, la civiltà europea possano dare alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Questo non mi pare che ci sia come approccio da parte della classe dirigente europea.