Parola allo storico
Intervista a Massimo Salvadori: “Meloni ha fallito su Pil e migranti”
«La destra post-fascista al governo si dimostra avida di poltrone e dotata del personale politico di livello più basso dal Dopoguerra a oggi. Il riformismo di sinistra esiste: è quello di Sanchez e Landini»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Per storia, pubblicazioni e profilo accademico, Massimo L. Salvadori è ritenuto, a ragione, uno dei più autorevoli storici e studiosi italiani della sinistra. Professore emerito all’Università di Torino, tra le sue innumerevoli pubblicazioni e saggi, ricordiamo La sinistra nella storia italiana (Editori Laterza), Tenere la sinistra. La crisi italiana e i nodi del riformismo (Marsilio, 1992) Le ingannevoli sirene. La sinistra tra populismi, sovranismi e partiti liquidi (Donzelli, 2019); Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016 (Einaudi, 2018); Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli, 2016). Democrazie senza democrazia (Laterza, 20111). Da un secolo all’altro. Profilo dell’età contemporanea 1980-2022.
«I populisti non guidano il popolo, lo trascinano. E riescono ad alimentare il suo risentimento, scuotendo nel profondo le istituzioni e screditando le forze politiche. La sinistra italiana, se non vuole rimanere disarmata, deve risalire la china che è sotto gli occhi di tutti. Ha bisogno di un partito autonomo e strutturato: non già di un partito della propaganda; piuttosto di un partito della conoscenza, della cultura e della partecipazione. E l’attenzione va rivolta soprattutto alle giovani generazioni». Così rimarca il professor Salvadori nel suo libro Le ingannevoli sirene. La sinistra tra populismi, sovranismi e partiti liquidi (Donzelli). Il libro è del 2020. Tre anni dopo, è di una stringente, sferzante attualità.
L’iniziativa parlamentare sul salario minimo sembra aver realizzato il “miracolo” politico dell’unità delle opposizioni. Come la vede, professor Salvadori?
Il varo del salario minimo è un obbligo umano e politico nei confronti di tutti i lavoratori che in Italia sono sottopagati al punto di non essere in grado di mantenere se stessi e le loro famiglie. In realtà il “miracolo” sarebbe l’approvazione di una legge in tal senso da parte del Parlamento. L’unità delle opposizioni su questo obiettivo è un buon punto di partenza, ma nulla di più. Insomma il fatto che Conte e la Schlein vadano a braccetto per la strada dietro a uno striscione che inneggia al salario minimo non è di per sé un motivo di grande esultanza. Lo sarebbe vedere i loro partiti impegnarsi al massimo per mobilitare i loro militanti e i lavoratori per raggiungere l’obiettivo.
La tragedia di Brandizzo ha riportato al centro dell’attenzione il tema degli infortuni e delle morti sul lavoro. Non crede che tutto ciò sia la manifestazione estrema di una precarietà delle condizioni in cui operano troppi lavoratori nel nostro Paese?
È da sempre una conoscenza diffusa il fatto che in Italia i numerosi e continui incidenti e morti sul lavoro non sono il frutto di quel tasso di “fatalità” cui vanno soggetti purtroppo in tutti i paesi le persone impegnate in attività pericolose, ma ad una incuria e inadeguatezza generalizzata di quanti, imprenditori, tecnici, burocrati, addetti alle ispezioni, politici, dovrebbero provvedere a contenerne al massimo il numero. Le celebrazioni in occasione dei ricoveri in ospedale e dei funerali vedono scorrere molte lacrime e un fiume di parole di rammarico, ma il numero degli incidenti è andato crescendo. Il che è lo specchio del dato che ciò che andrebbe fatto non viene fatto. Tocca poi al presidente Mattarella esprimere a nome del Paese l’universale deplorazione, che troppo spesso copre le responsabilità. La risposta richiede sia una grande attenzione da parte dei partiti sensibili al problema e dei sindacati sia una maggiore, più efficiente vigilanza da parte degli ispettori del lavoro. Tutti sanno, ma non si passa ai fatti. La situazione attuale si presenta come una vera e propria vergogna nazionale.
Tutti o quasi, a sinistra, nel Pd, si dicono “riformisti”. Nel dibattito politico questo termine spesso è associato a quello di “moderato”. Esiste un riformismo di sinistra e come andrebbe declinato?
Non mi risulta che nel Pd vi siano dei rivoluzionari; quindi tutti i suoi dirigenti, iscritti e simpatizzanti non possono che essere iscritti alla categoria dei riformisti. Una distinzione può esservi all’interno di questi a seconda che si sia più o meno sensibili alle questioni sociali, tra chi è più “moderato” perché confida maggiormente nelle intese tra partiti e gruppi parlamentari e chi nella mobilitazione popolare per raggiungere determinati obiettivi. Certo nessuno ha più in mente di conquistare un Palazzo d’Inverno e di cacciarvi gli inquilini. Per quanto riguarda il nostro paese, a me pare che la forza che attualmente più rappresenta un “riformismo di sinistra” sia la Cgil di Landini poiché affronta con maggior vigore i problemi sociali coinvolgendo direttamente i lavoratori. Certamente esiste un “riformismo di sinistra”. Di esso in Europa ha dato esempi davvero importanti anche per la loro organicità il governo guidato in Spagna dal socialista Sánchez, che nella legislatura che ha preceduto le elezioni da poco svoltesi in quel paese ha fatto varare leggi che hanno posto limiti ai contratti a tempo determinato, rafforzato i diritti per il disoccupati, imposto alle società di assumere i rider come lavoratori dipendenti, aumentato i salari minimi, stabilito un contributo di solidarietà a carico dei grandi patrimoni e un reddito minimo per i meno abbienti, reso punibili le discriminazioni relative alle etnie, alle disabilità, agli orientamenti di sesso, tutelato le condizioni economiche delle persone in precarie condizioni di salute, potenziato la costruzione delle abitazioni destinate all’edilizia sociale, fatto scendere notevolmente il tasso di disoccupazione.
Professor Salvadori, tra poco scadrà un anno dall’insediamento del governo di Destra. Che bilancio ne trae?
La prima considerazione è che l’avvento di questo governo segna una vera e propria Caporetto per le forze che si pongono all’opposizione. Per la prima volta nella storia della Repubblica tiene le redini del potere una Destra che è l’erede politica del fascismo e della Repubblica di Salò e che tiene al guinzaglio, come partner minori e subalterni, la Lega e quanto rimane dell’orfana Forza Italia. Il tratto che emerge di primo acchito è un insaziato desiderio di occupare il massimo numero delle posizioni di potere. Il secondo aspetto è il prevalente basso livello del personale di governo e dei parlamentari che lo servono, il più basso di tutti i governi dal dopoguerra ad oggi. Ma, grazie ai talenti personali di Giorgia Meloni, l’esecutivo si dimostra molto abile nell’arte del depistaggio, vale a dire nella capacità di deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dall’incapacità dimostrata nell’affrontare la grave situazione in cui si agita l’economia nazionale, gli affanni del Pil, l’impiego delle risorse messe a disposizione dal Pnrr, la questione dei migranti, la riforma della giustizia, la questione ambientale. La prospettiva che questo governo possa realmente durare per l’intera legislatura si profila come una sciagura per l’Italia.
Nel 2024 si voterà per il Parlamento europeo. Elezioni in tempo di guerra. Quale la posta in gioco?
Le elezioni del 2024 vanno considerate nel quadro dello stato di salute dell’Unione Europea. Il loro esito principale sarà di ridisegnare la topografia delle famiglie politiche e ideologiche all’interno dell’Unione stessa, e in particolare il peso che acquisteranno le correnti populiste e di estrema destra. I risultati che ne usciranno avranno senza dubbio importanti ripercussioni. Bisognerà vedere quali effetti avranno sulle istituzioni dell’Unione e sul loro funzionamento; di una Unione che dimostra di non saper uscire dall’organica debolezza che deriva dal non riuscire a darsi quella struttura federale che era il sogno dell’utopia di Altiero Spinelli, con la conseguenza di presentarsi come un nano politico rispetto ai grandi e potenti Stati federali e non federali che occupano la scena del mondo e prendono le decisioni che più contano e alle quali l’Unione non ha altra scelta se non adeguarsi: gli Stati Uniti, l’India, il Brasile, la Cina, la Russia. Lo vediamo nel caso dei maggiori conflitti che lacerano il nostro pianeta, delle scelte in tema di contrasto alla questione del degrado ambientale, della rivoluzione digitale. In tutti questi campi l’Unione, che resta divisa in molti Stati nazionali rendendo quanto mai faticoso raggiungere intese comuni, dimostra di non possedere le risorse politiche, economiche, scientifiche, militari per essere nel novero delle potenze che primariamente decidono. L’economia stenta, con una Germania che è entrata nella recessione, l’agenda europea nei confronti della guerra in Ucraina è dettata all’Unione dagli Stati Uniti che controllano la Nato. In relazione a tutti questi gravi e incombenti problemi le elezioni del nuovo Parlamento europeo scriveranno un altro capitolo della storia claudicante di una Unione incompiuta, in affanno, desiderosa di essere quel che non le riesce di diventare.