La trilogia rimasterizzata

Chi è Tom Waits, il cantastorie divino che dirige i venti con la voce

La sua musica spazia dal blues al rock alternativo e ancora dal jazz folk alla musica d’autore ma, in ogni opera da lui partorita, più forte della miseria e della rabbia c’è l’amore, così disperatamente ricercato.

Cultura - di Graziella Balestrieri

16 Settembre 2023 alle 17:00

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Chi è Tom Waits, il cantastorie divino che dirige i venti con la voce

Sono usciti da pochi giorni rimasterizzati e supervisionati personalmente da Kathleen Brennan e Tom Waits, gli album che l’artista americano pubblicò con la casa discografica Island. Stiamo parlando di Swordfishtrombones 1983, Rain Dogs 1985 e Frank Wild Years 1987, una trilogia considerata fondamentale (anche se questo bisognerebbe chiederlo al diretto interessato) e successivamente ad ottobre, usciranno Bone Machine e The Black Rider. Tom Alain Waits: come raccontare questi album, questa concezione di arte, di musica, di trasformazione continua ma sempre rimanendo ben saldo alla sua radice, senza parlare di lui o, meglio, della sua figura?

È divertente Tom Waits, che rilascia pochissime interviste, le potremmo contare in tutti questi anni, non arriverebbero nemmeno a completare i giorni di un mese, che si protegge come uomo, che protegge una moglie che lo ha da sempre a sua volta protetto, protegge i suoi figli, protegge la sua casa e nessuno che riesca a saltare il suo recinto enorme, come di quelle tenute americane che si vedono nei film. Poi magari avrà una casa super moderna ma restiamo nella tenuta con il recinto, che è un’immagine più bucolica e selvaggia. Ecco Tom Waits appare o non appare dipende, se non attraverso la sua musica.

Certe volte si parla di lui come fosse un’idea, poi ce lo ritroviamo come attore in film di registi importantissimi come il Dracula di Brame Stoker, in tanti film Jim Jarmusch, e poi Joel e Ethan Coen, in Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, Parnassus di Terry Gilliam, La tigre e la neve di Roberto Benigni (qui Tom Waits non solo è attore ma presente anche con una struggente You can never hold back spring). Insomma, lui c’è, appare dove vuole apparire. Certe volte è come se si stesse parlando di un artista di un altro tempo, e la cosa straordinaria è che lui vuole così. Ed è un potere enorme come artista, perché non dipende dal commercio, nonostante il suo spessore, non si fa trascinare nei giochi anche talvolta pesanti delle case discografiche, Tom Waits non si fa inghiottire, e nemmeno divora, perché seduto davanti ad una tavola perfettamente imbandita preferisce digiunare o solo un assaggino, a stomaco vuoto ma libero, nessuna abbuffata per lui, talmente intelligente da capire che le abbuffate prima o poi ti riducono con due dita in bocca. Non c’è un artista libero come lui, e su questo non c’è proprio nessun dubbio.

Pensate che potere enorme e quanto valore ha la sua musica e la sua arte per potersi permettere di non esserci in un mondo dove se non sei presente per un secondo sui social, alle tv, sui giornali, non sei nessuno. E forse questo interessa a Tom Waits: essere nessuno in un mondo in cui tutti si sentono qualcuno pur non avendo niente tra le mani per dimostrarlo. Certo è carne e ossa ed è stato abilissimo e talmente furbo da farci usare ancora la fantasia per immaginarlo quando va al ristorante, se ci va, se davvero parla con le galline. Ecco: un immaginario, come a dire “Benvenuti nel fantastico mondo di Tom Waits” e per citare Verlaine è come se fosse un mondo dove non c’è nulla in sé che pesi o posi- ma resta, indubbiamente. Forse basterebbe Wikipedia che scrive che Tom Waits è uno dei cantautori più importanti del 900, che fa blues, rock, rock alternativo, jazz folk, musica d’autore, però Wikipedia non ci racconta del sogno di Tom Waits che fa cantare i galli, che suona le pentole, le padelle, che ascolta ancora il rumore dei treni, dei megafoni e che di base come mi disse una volta Roberto Vecchioni in un’intervista di tanti anni fa, è quello che racconta e canta “l’amore più forte della rabbia e della miseria”.

Ed è dalla miseria che parte tutta l’opera di Tom Waits, ma la miseria intesa come miseria morale, misera di una società che abbandona l’uomo alle sue tristezze e alle sue malinconie, delle miserie delle grandi metropoli con le luci a spaccarti gli occhi e dall’altro lato del marciapiede, il buio della miseria che spacca l’anima e la dignità delle persone ridotte a vivere ai margini. Della miseria di chi dimentica, di chi si prende il mondo e crea i mostri, crea le paure, crea gli incubi. E invece Tom Waits ribalta il mondo quando lo canta, schiaccia l’ipocrisia quando suona le pentole e le padelle e lo ripulisce con la sua voce sporca. Ribalta il ruolo del buono e del cattivo, nelle sue liriche, nei suoi suoni strampalati a tratti, fuori fuoco come direbbe Woody Allen, ti mostra il mostro (scusate) come era prima di essere trasformato. Queste creature di cui lui si prende cura e alle quali poi ti ci fa per forza affezionare.

Perché in Tom Waits più forte della miseria e della rabbia c’è l’amore appunto. Quell’amore così disperatamente ricercato in tutte le sue canzoni e dove come in nessun altro artista l’amore è il luogo che si fa scudo, come se fosse riuscito con la sua arte a portarsi la luna in tasca, piena di poesia, malinconia, rispetto e pulizia nei confronti dell’amore ma non solo tra uomo e donna. Il discorso di amore di Tom Waits è ampio perché abbraccia la miseria dell’uomo e più miseria incontra più amore raccoglie nei suoi testi.

Poi nel parlare di amore inteso tra due persone, Tom Waits ha scritto le canzoni d’amore più belle, anche se non si capisce perché non proprio tanti lo sanno: Little trip to heaven on the wings of your love, Romeo is bleeding, quest’ultima talmente impregnata d’amore e sanguinante che la famosissima Always dei Bon Jovi inizia proprio citandola – This Romeo is bleeding, but you can’t see his blood-. Blue Valentine, a cui andrebbe riconosciuta per l’eternità la definizione di “La canzone d’amore”, perché Tom Waits usa un linguaggio metaforico ma talmente straordinario e brutale che sembra che le parole vengano a cavarti il cuore dal petto. Poi Broken Bicycle, a cui è affidata l’eterna tristezza dell’amore finito. Hold On, All the world is green, usata come Colonna Sonora nel film Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel.

Ci sarebbero un sacco di titoli da aggiungere a questi ma è importante capire che in un certo senso la poetica di Tom Waits è, mi pare quasi una vergogna sottovalutata, perché in Italia è quasi considerato di nicchia. Di nicchia uno che scrive Time. Di nicchia uno che scrive Kentucky Avenue. Di nicchia uno che scrive la canzone blues per eccellenza come Invitation to the blues. Come si può considerare di nicchia chi come fece a suo tempo Baudelaire con le sue poesie, attraverso la sua musica estrae la bellezza dal male? Tom Alain Waits nato a Pomona, 73 anni fa, sposato e legato indissolubilmente nell’arte, nell’anima e nel corpo a Kathleen Brennan, a cui Tom deve una sorta di retta via che, a quanto pare, non era propenso a riconoscere.

Il più geniale dei suonatori di padelle, strozza colli di galline, bevitore di fumo di marmitte, ammiratore della luna tanto da essere riuscito a portarsela in tasca, prendendosene cura però e la luna lo ha ripagato donandogli la scrittura che è piaga e coltello, che non usa mai contro gli altri, schiaffo e guancia che porge solo alle donne, che è forbice e pettine, di un uomo curatissimo nel sembrare trasandato nel vestirsi. La trilogia che uscirà il primo settembre, ovvero Swordfishtrombones (1983), Rain Dogs (1985) e dal musical teatrale Franks Wild Years (1987), viene considerata come una svolta importante nella carriera di Tom Waits e da un punto di vista lo è ma soprattutto perché Tom Waits inizia a cambiare voce, che è qualcosa di fondamentale, nel senso che quella raucedine del tutto particolare gli permette di accostarsi a strumenti e a mondi che sembrano irreali o surreali.

Gli anni 70 di Tom Waits mantengono un ancora un filo di legame, seppur straordinariamente già originale, con il cantautorato classico americano, anche nel blues. Quando arriva l’uscita di Rain Dogs, Tom Waits spacca in due la sua arte diciamo, la reinventa, e soprattutto nella scrittura diventa profondamente astratto, concependo dei testi che seguono metafore su metafore e simboli su simboli, esempio di questa rottura con il passato è Clap Hand. Però in Rain Dogs c’è anche Time che è un brano che appartiene al primo Tom Waits. E qui torniamo a quello che davvero si può considerare il cambiamento, nella sua voce non il modo di scrivere o suonare, la sua voce che cambia quasi gli fa cambiare il mondo che va a suonare e cantare. Per renderla breve: Tom Waits adatta i testi e le musiche alla sua voce e già un piccolo sentore di questo cambiamento, c’era nell’album precedente One from the Heart, album interamente scritto per essere la colonna sonora dell’omonimo film di Francis Ford Coppola.

In Rain Dogs c’è una canzone pop come Downtown train, che però con quella voce lì diventa tutt’altro mondo. Canzone ricantata sia da Bruce Springsteen e poi portata al successo da Rod Stewart (in tanti pensano che sia la sua infatti). E non solo, essendo stato da sempre un grandissimo performer, le sue esibizioni sul palco diventano rappresentazioni teatrali, così Franks Wild Years è da considerarsi come un’opera teatrale. E con molta probabilità è l’album dove Tom Waits capisce che quella è la strada per diventare ancora più libero: difficile trovare in giro un pezzo arrangiato come la sensuale e stropicciata Temptation, il folk e il blues che camminano a passo pesante come un film western di Sergio Leone del brano Yesterday is here, la stupefacente e astratta nel testo e nei suoni Telephon Call from Instabul e poi Cold Cold Ground e l’avvicinamento al walzer, alle polke, alle tristi feste di piazza come in More than rain.

Questa trilogia è importantissima da recuperare perché in questi album la voce di Tom Waits cambia e cambiando la chiave debbono cambiare anche le porte. Nel lontano 1999 a Firenze ebbi la fortuna di vedere Tom Waits in concerto/ in spettacolo e quando iniziò mi sembrava di avere paura, mi aspettavo che da ogni suono venisse fuori un fantasma, che da un momento all’altro uscisse un orco, ad un certo punto quasi una sorta di mancanza di aria però paradossalmente mi stavo divertendo come una pazza (sperando che i pazzi si divertano davvero) avevo paura e mi divertiva avere quel tipo di paura creato da quello spettacolo e quando sono uscita mi sentivo protetta da quello che c’era fuori da quella musica che dentro era stata rumorosa, strascicata, strampalata, teatrale, paurosa, disperata a tal punto che sembrava che a Tom Waits quel suono non bastasse mai per stargli al passo. Buffo anche, tremendamente buffo. La trilogia che uscirà il 1 settembre fa parte della tempesta musicale di Tom Waits, che da sempre in questa tempesta sembra essere un pugno di sabbia che si muove indisturbato, perché è lui a dirigere i venti.

16 Settembre 2023

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