La manifestazione

“Una sana e robusta ribellione”, Arci e Cgil in piazza il 7 ottobre contro il governo Meloni

Pil, occupazione, poveri, migranti: Meloni e soci ci hanno reso sempre più cupi, rabbiosi e isolati. È ora di rimettere al centro comunità e solidarietà

Editoriali - di Walter Massa - 20 Settembre 2023

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“Una sana e robusta ribellione”, Arci e Cgil in piazza il 7 ottobre contro il governo Meloni

Ci sono molte ragioni per scendere in piazza il 7 ottobre a Roma. È proprio di queste ore la notizia dell’ennesimo aumento dei tassi da parte della Banca Centrale Europea che sta sempre più indebolendo il nostro potere d’acquisto, facendo scivolare paurosamente sempre più famiglie verso la povertà. Tutto ciò accade in un contesto internazionale difficilissimo e reso drammatico da una guerra che nessuno ha realmente intenzione di far cessare.

L’Europa è nel bel mezzo della più grande crisi politica dall’introduzione dell’euro a causa delle scelte sbagliate basate sul protezionismo dei singoli stati, sul neoliberismo e sull’austerità. Il conflitto in Ucraina ne ha svelato tutte le debolezze in cui spicca, tra le altre, quella del nostro Paese. Una debolezza che ogni giorno si tenta di mistificare con sparate sensazionali obbligandoci a guardare il dito e non la luna. Nel mentre il presidente del Consiglio pare completamente concentrato sul tentativo ossessivo di imporre una svolta culturale occupando poltrone. Il Paese arranca e s’indebolisce e i dati lo dimostrano, così come le condizioni di intere fasce di popolazione: calo del Pil, calo della produzione industriale e dell’occupazione; fallimento completo delle misure sul dopo reddito di cittadinanza e così via.

Per contro si continua a buttare benzina sul fuoco della perenne lotta tra ultimi e penultimi, offrendo ogni tanto specchietti delle allodole come la tassazione sui profitti bancari. Armi di distrazione di massa per provare ad impedire all’opinione pubblica di rendersi realmente conto dei fallimenti di questo esecutivo. Dal primo giorno del governo più a destra della storia repubblicana, infatti, i nemici sono stati un po’ tutti: giovani, pensionati, donne, poveri, migranti, disabili, persone lgbtq+, per non parlare di sindacati, piccole e medie imprese, banche, associazioni di categoria, per arrivare al terzo settore, bistrattato e dimenticato ma senza il quale oggi non esisterebbe alcun stato sociale.

Ma c’è anche chi ci guadagna e pare intoccabile pur macinando proventi su proventi. È il caso dell’industria bellica, della sanità privata e dell’industria energetica, giusto per citare i primi. Durerà poco o durerà tanto è il dilemma su cui si arrovella una maggioranza del paese che non ha votato questa destra e nella quale non si riconosce. Vi sono dunque molte ragioni che ci hanno spinto a promuovere, lanciare e organizzare il 7 ottobre insieme a tantissime sigle associative e alla Cgil. La prima, più importante è che questo paese ha bisogno di ritrovare un comun denominatore, uscendo da una sorta di autismo diffuso e generalizzato che ha portato negli anni al disfacimento delle più elementari regole di convivenza civili. Autismo che ha indebolito complessivamente la tenuta complessiva dei diritti per tutte e tutti, mettendo a serio rischio anche i doveri propri dell’essere cittadino.

Solitudine ed egoismo hanno preso il sopravvento e non c’è persona, quartiere, paese, città, associazione, sindacato, impresa che non si sia sentito solo e abbandonato in questi tempi da uno Stato che nei fatti non c’è più e se c’è è sempre senza soldi e impegnato a fare altro. Ciascuno ha provato a combattere la propria battaglia da solo, senza alcun risultato nella maggior parte dei casi, aumentando il senso di frustrazione. C’è bisogno di una presa di coscienza collettiva, la più unitaria e ampia possibile che si assuma l’onere di dare una sveglia al paese, soprattutto quello non rappresentato.

Non si tratta più di resilienza o resistenza; si tratta di una sana, robusta e democratica ribellione perché chiunque possa tornare a guardarsi allo specchio senza vergogna e senza dover più pensare che l’unico futuro sicuro per i nostri figli e i nostri nipoti sia fuori da questo Paese. In questo contesto l’Arci si è posta come vera e propria forza aggregante non per primeggiare ma, al contrario, favorire altri, offrendo uno spazio aperto, un luogo libero e autonomo dove ritrovarsi. È parte della nostra tradizione farlo essere parte attiva di un progetto di società alternativo all’attuale, in Italia come in Europa. E non deve stupire.

L’Arci non è infatti né una associazione di volontari intesi come coloro che devono donare qualche ora alla settimana “per fare del bene ad altri” e non è neppure una associazione di operatori sociali che debbono strenuamente difendere un lavoro, per quanto importante. Non c’è un giudizio in questo schematismo ma la convinzione che l’Arci, in questa ritrovata fase identitaria, sceglie nuovamente di essere prima di tutto una organizzazione di uomini e donne che utilizzano l’associazione come strumento di emancipazione, di cambiamento della società, in particolare oggi, in cui sono a rischio le ragioni stesse dello stare insieme.

Lavorare nelle comunità significa investire sulla nostra dimensione di cittadine e cittadini, facendo sì che questi siano veri e propri agenti di cambiamento. È un lavoro su di noi e sulla ricostruzione di legami sociali. È credere nella cura delle differenze, del pensiero altro e divergente, delle fragilità, delle diversità. È valorizzare le potenzialità e le peculiarità in un disegno comune. Una visione che assume una importanza vitale se guardiamo alla crisi democratica già in atto. La stiamo vivendo giorno dopo giorno. Abbiamo un baluardo certo: la Costituzione. E a noi tocca continuare a difenderla perché, è oggi la nostra unica garanzia di fronte all’ennesimo tentativo di deriva autoritaria che ciclicamente si ripresenta.

Il rapporto diretto fra il capo e il popolo è un richiamo della foresta continuo per taluni; tagliare tutto ciò che sta in mezzo (e crea disturbo al manovratore) è l’altra faccia della medaglia, in barba agli articoli costituzionali. Pensiamo solo ai principi fondamentali ma anche a tutta la prima parte dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini. E qui non posso non citare a proposito l’articolo 18 che ribadisce quanto sia imprescindibile in una democrazia il “diritto di associarsi liberamente”. Esiste infatti un serio rischio a causa delle spinte sempre più evidenti che portano il neonato Codice del Terzo Settore in una direzione che potremmo riassumere così: non è più importante associarsi per stare insieme e per affrontare, sempre insieme, tutto ciò che ha a che fare con la democrazia, la solidarietà e con la vita comunitaria ma, piuttosto, delineare una funzione esclusiva di tenuta del welfare, diviso tra impegno totalmente volontario – possibilmente piccolo e frammentato – e tutto ciò che il termine “impresa sociale” può racchiudere.

Non a caso sono sotto attacco tutte quelle attività che rappresentano l’autofinanziamento diretto come il tesseramento e i bar sociali. Strumenti unici che, guarda caso, garantiscono a chi li esercita, libertà e autonomia non pesando, appunto, su finanziamenti pubblici. Demolire questo impianto – come si sta tentando di fare con l’introduzione dell’Iva nel Terzo Settore – che troverà nell’associazionismo italiano una opposizione fortissima – significa tentare di zittire definitivamente un mondo che esprime una sua politicità e nella libertà sostiene o critica i singoli provvedimenti dei governi e le linea di condotta delle istituzioni.

Dopo aver populisticamente tagliato il finanziamento pubblico ai partiti, distruggendo i partiti e permettendo la politica solo a chi detiene le risorse per farla; dopo avere tagliato il finanziamento pubblico che garantiva il pluralismo e la libertà d’informazione relegando l’Italia al 47° posto per la libertà di stampa, chiudere la bocca ad organizzazioni radicate, libere e democratiche come le nostre, dove si praticano l’ascolto e la democrazia, potrebbe definitamente aprire una crisi irreversibile sotto il profilo della tenuta democratica.

“Abbiamo scelto di essere parte del campo delle forze più vitalmente interessate al cambiamento. Sul terreno della socialità, della cultura, della solidarietà, dell’inclusione. Non surroghiamo i partiti, non tappiamo i buchi dello stato sociale, non siamo al servizio di chi vuole servirsi, pro domo sua, delle istituzioni. Siamo un’associazione di uomini e donne liberi e uguali, refrattari a ogni leaderismo, che agiscono su un terreno, quello dell’autogestione, che produce ciò che i nostri antenati hanno chiamato emancipazione”. Così ci spronava Tom Benetollo insistendo nel processo di autonomia del sociale; con queste parole e per questi motivi, il 7 ottobre saremo in tante e tanti su “la via maestra”.

*Presidente nazionale Arci

20 Settembre 2023

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