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Chi era Giorgio Napolitano, il comunista che piaceva anche a Washington

Chi era Giorgio Napolitano, il comunista che piaceva anche a Washington

Giorgio Napolitano ha vissuto due vite e le ha traversate entrambe seguendo la stessa bussola. È stato un dirigente comunista di primissimo piano, in lizza con Enrico Berlinguer per succedere a Luigi Longo come segretario del partito. Poi è stato un uomo delle istituzioni, il primo ex comunista ministro degli Interni e soprattutto il primo e l’unico eletto presidente della Repubblica. Di primati, Napolitano, ne vanta anche altri: il primo comunista accolto negli Usa, nel 1978, il primo capo dello Stato eletto per la seconda volta alla scadenza del mandato.

Prima ancora era stato autore di sonetti, appassionato di teatro, attore ma anche militante politico dal 1942, a 17 anni, iscritto al Pci dal 1945. Poteva scegliere tra diverse strade e imboccò quella della politica: subito segretario federale a Napoli poi a Caserta. Dal 1953 deputato e dal Parlamento sarebbe uscito solo 33 anni dopo, con due anni di presidenza dal 1992 al 1994, ma solo per traslocare al Viminale, poi al Parlamento europeo, a palazzo Madama come senatore a vita dal 2005, infine per 10 anni al Quirinale. Giorgino, come lo chiamavano nel Pci per distinguerlo dal suo padre politico e capocorrente Amendola, “il Giorgione”, entrò subito a far parte dell’area moderata e più vicina al riformismo, quella appunto di Amendola e di Antonio Giolitti.

Ma quando nel 1956 i carri armati russi entrarono a Budapest e Giolitti si schierò contro l’invasione, il compito di scagliare l’anatema fu affidato, come d’uso nei partiti comunisti dell’epoca, proprio a chi gli era stato più vicino, dunque a Napolitano. Come poteva non capire, Giolitti, che quei carri armati avessero “contribuito in maniera decisiva a salvare la pace nel mondo”? Il cruccio di quella requisitoria molto vicina al tradimento Napolitano, per sua stessa ammissione, se lo sarebbe portato dietro per tutta la vita.

Le scuse ufficiali sarebbero arrivate nel 2006 quando, appena eletto capo dello Stato, l’antico “Giorgino” inaugurò il suo mandato andando a trovare a casa sua Giolitti per ammettere che mezzo secolo prima era lui ad avere ragione. Nel Pci degli anni ‘60 i cavalli di razza erano due: Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. Non si amavano anche se si rispettavano. Dopo il congresso che nel ‘66 aveva registrato la sconfitta totale della sinistra di Pietro Ingrao, era noto che uno dei due sarebbe stato scelto come successore del segretario Longo.

Il conclave rosso, alla fine, optò per il togliattiano sardo piuttosto che per l’amendoliano di Napoli che in una prima fase, come vicesegretario di fatto, era sembrato in vantaggio. Come responsabile economico del Pci, Napolitano, già allora attento ai rapporti con il mondo socialdemocratico e in Italia con il Psi, riformista privo di qualsiasi nostalgia rivoluzionaria, anche nel senso di quella rivoluzione pacifi ca e praticata a colpi di “riforme di struttura” nella quale crdevano invece ancora molti comunisti, è stato con Berlinguer il vero dirigente di una solidarietà nazionale interpretata però dal responsabile economico in modo estremo: forse l’unico dirigente comunista nella storia ad aver proposto una diminuzione dei salari operai in nome della responsabilità nazionale e dell’interesse generale. Non a caso proprio in quegli anni, fu il primo comunista italiano a ottenere il visto per una serie di conferenze negli Usa.

Il suo riformismo suscitava interesse e apprezzamento, anche se dovette aspettare 10 anni prima che fosse invitato negli Usa, grazie ai buoni uffici di Giulio Andreotti, stavolta apertamente in veste di politico. Piaceva anche così: “He is my favourite communist”, lo elogiò Kissinger. Eppure fu proprio lui a siglare la fine dell’accordo con la Dc con un discorso contro lo Sme che a risentirlo oggi suona come un circostanziato atto d’accusa contro la moneta unica per come è stata realizzata. L’intesa con il compagno e rivale Berlinguer non sopravvisse alla solidarietà nazionale. Della nuova strada imboccata dal segretario a Napolitano non piaceva niente: non la competizione durissima con il Psi di Craxi, meno che mai una questione morale che il dirigente napoletano riteneva portasse solo all’isolamento. Lo pensava e lo scrisse a chiare lettere sull’Unità.

Nel Pci di Berlinguer e Napolitano, come in quello di Amendola Ingrao, c’erano molta più democrazia, trasparenza politica e coraggio di quanto non capiti oggi nel Pd. Dopo la morte del segretario, Napolitano tornò in lizza ma il partito preferì Natta e probabilmente commise un fatale errore. La seconda vita del comunista Napolitano inizia nel 1996, quando occupa nel governo Prodi la poltrona più nevralgica, il ministero degli Interni ma prende la rincorsa il 10 maggio del 2006, quando alla quarta votazione fu eletto presidente della Repubblica con il voto della sola maggioranza. Nessuno si apsettava che Giorgio Napolitano si dimostrasse un presidente-arbitro, di quelli che si tengono quanto più possibile lontani dalla lizza e interpretano col massimo rigore i limiti del loro mandato. Nessuno però si aspettava neppure un presidente che quei limiti li forzava al massimo grado, con la palese intenzione di indirizzare il corso della vita politica “nell’interesse del Paese”.

Poteva contare sulla fedeltà assoluta, spesso obtorto collo, comunque eccessiva del suo Pd. Interpretava le preorogative del Quirinale in modo a dir poco molto estensivo. La bussola era ancora quella adoperata dal dirigente del Pci: interesse nazionale al primo posto, o quel che il presidente riteneva essere tale, decisionismo assoluto, diffidenza nei confronti di ogni retorica demagogica, e dunque pronunciata idiosincrasia nei confronti del M5S, che lo odiava ed era ricambiato: storica la reazione alla domanda sulla vittoria elettorale dei 5S nel 2013: “Come valuta il boom del M5S?”. “Non ho sentito nessun boom”. Stella polare della sua presidenza fu l’evitare a ogni costo l’interruzione anticipata delle legislature, fonte a suo parere di quasi tutti i mali della politica italiana. Napolitano convinse Fini e il Pd a rimandare di un mese il voto sulle mozioni di sfiducia contro il governo Berlusconi, lasso di tempo che permise al Cavaliere di procedere con la sua campagna acquisti e salvarsi per un pelo.

Spinse poi, nel marzo 2011, lo stesso Berlusconi a imbarcarsi nella spedizione contro la Libia, che il Cavaliere considerava a ragione una follia autolesionista. Ma il presidente, capo delle Forza armate, gli tagliò l’erba sotto i piedi convocando il Consiglio supremo di difesa e anticipando la scelta: “Gheddafi sta sfi dando il mondo. L’Italia non può restare indifferente”. Sin dal giugno 2011 iniziò a preparare la caduta di un governo Berlusconi che riteneva ormai decotto e per la successione si rivolse a Monti, che sarebbe effettivamente diventato presidente del consiglio, con un governo di unità nazionale, in novembre. Si oppose in tutti i modi all’alleanza tra Pd, Sel e Idv, la cosiddetta “foto di Vasto” e, dopo le elezioni, rifiutò la richiesta di Bersani che voleva tentare la carta di un governo di minoranza per mettere alle strette i 5S.

A Giorgio Napolitano i governi di unità nazionale piacevano: garantivano quella stabilità che considerava più essenziale di tutto il resto. Quando, dopo il disastro dell’agguato dei 101 franchi tiratori contro Prodi nell’elezione del nuovo presidente, tutte le forze politiche si recarono in ginocchio al Quirinale chiedendogli di accettare un secondo mandato, sferzò i presenti e pose come condizione non negoziabile la nascita appunto di un nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Enrico Letta.

Ma il reincarico lo accettò malvolentieri, convinto che fosse un danno per la democrazia. Era stato più un sovrano che capo dello Stato ma proprio per questo sapeva che una presidenza che lui stesso aveva reso così forte, per non degenerare in monarchia, doveva avere almeno limiti temporali rigidi. Accettò il secondo mandato ma appena possibile, dopo meno di due anni, re Giorgio si tolse la corona.