La morte dell'ex Presidente
La lezione di Giorgio Napolitano tra fiducia, credibilità e coerenza
La fiducia e la diffidenza condizionano l’equilibrio dei singoli e il loro libero associarsi, regolano i conflitti e le tensioni e orientano i popoli verso la pace o la guerra. Una lezione che sfida il tempo.
Politica - di Danilo Di Matteo
Ricordo due momenti del pensiero e dell’azione di Giorgio Napolitano. Il primo: il suo confronto, nel 2017, già da presidente emerito, con la figura di Marco Pannella, a un anno dalla scomparsa. A volte tendiamo a considerare la cultura (compresa quella politica) come un’entità disincarnata, quasi essa non vivesse nel cuore e nella mente degli umani. Ci sono poi eventi o frasi che ci destano dal torpore e dalla pigrizia, aiutandoci a cogliere fatti e protagonisti nella loro complessità.
Così è avvenuto, appunto, in occasione della rievocazione della figura di Pannella a opera di Napolitano, il quale ha fatto riferimento alle incomprensioni che avevano caratterizzato il rapporto fra il Pci e i radicali, il rapporto fra lui stesso e questi ultimi. Per “umore” e “temperamento”, per stile e approccio ai problemi, l’ex inquilino del Quirinale e il leader radicale sembrerebbero agli antipodi: da un lato scorgiamo prudenza, moderazione, pacatezza, dall’altro irruenza, vis polemica, trasgressione. E il discorso potrebbe estendersi agli altri “miglioristi”, con l’eccezione di Emanuele Macaluso, il quale per anni ha coltivato relazioni feconde con il mondo radicale. La realtà, come sempre, è più sfaccettata: dal bel libro di Umberto Ranieri Napolitano, Berlinguer e la luna, ad esempio, emerge un’immagine diversa dei riformisti del Pci, a un tempo pazienti e inquieti.
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La politica, come la vita, però, è costellata di incontri in apparenza impossibili. Anzi: è una sorta di storia e di arte degli “incontri impossibili”. Incontri talora postumi; in ogni caso tali da suscitare ammirazione per i loro protagonisti e da indurci a riflettere. Pannella non amava l’espressione “cultura politica”: la politica, quella vera, è già cultura, e viceversa. Esprimeva cioè l’idea della politica e della cultura come fenomeni vivi, incarnati. In ciò, forse, è il senso profondo del suo messaggio e di quello dei radicali. E in tale quadro si potrebbe collocare il ripensamento critico compiuto da Napolitano, dopo il tramonto degli schermi ideologici. Negli anni della sua presidenza, infatti, abbiamo conosciuto un Napolitano sempre attento, capace anche di indignarsi o di commuoversi: l’emotività coniugata con una rara saggezza. L’emotività delle persone pacate e, insieme, forti, pronte ogni volta a scegliere la parte dei deboli e dei fragili, degli ultimi e dei penultimi; delle vittime del lavoro, ad esempio.
Il secondo ricordo: da presidente in carica, Napolitano ci esortò ad avere fiducia in noi stessi e negli altri, sottolineando anche l’importanza della credibilità. Essere credibili per ispirare fiducia, verrebbe ora da dire. Si tratta certo di aspetti fondamentali della convivenza civile e della stessa sopravvivenza quotidiana. Mi nutro, ad esempio, grazie alla fiducia riposta nel fornaio o nel fruttivendolo. Ma si potrebbe andare ancora più alla radice e cogliere in una sorta di patologia o di deficit della fiducia uno dei tratti che caratterizzano addirittura i disturbi psichiatrici. Il paziente psicotico si sente sovente minacciato o perseguitato da “voci” o da “complotti”, che esprimono proprio il venir meno della fiducia nel prossimo.
È lo scacco dell’intersoggettività; la mancanza di un orizzonte condiviso con l’altro. Detto altrimenti, si perde quella confidenza e quell’intimità con il mondo grazie alle quali lo sentiamo familiare. L’esortazione di Napolitano alla fiducia, dunque, si sporge sul terreno di ciò che caratterizza gli umani, superando l’ambito delle istituzioni e del loro rapporto con i cittadini. La fiducia e la diffidenza condizionano l’equilibrio dei singoli e il loro libero associarsi, regolano i conflitti e le tensioni e orientano i popoli verso la pace o la guerra. Una lezione che sfida il tempo.