L'addio e le polemiche
Fatto e Corriere resuscitano i populisti: “Napolitano fu un golpista”
Nel salotto di Lilli Gruber Mieli e Padellaro riciclano la teoria grillina del presidente tecnocrate al servizio dei poteri forti, reo di aver di aver abolito le elezioni nel 2011
Editoriali - di Michele Prospero
La trasmissione di Lilli Gruber dedicata alla morte di Giorgio Napolitano ha avuto quantomeno il pregio di rendere anche visivamente percepibile la corrispondenza di antipolitici sensi tra le penne del sistema e i fogli della rivolta giustizialista. In studio, totale è infatti apparsa la convergenza tra Paolo Mieli e Antonio Padellaro nell’analisi sommaria, a tratti persino liquidatoria, del presidente scomparso (si ascoltino le parole di Mieli in merito al “salvataggio” di Berlusconi ad opera del Quirinale o all’inconfessabile “segreto” della telefonata con Mancino, sulla quale la Consulta ha però pronunciato parole definitive).
Le loro valutazioni hanno disvelato la miscela composita di quella destra culturale, più che direttamente politica, che ha inciso in profondità nelle fasi di impasse della repubblica. Nella figura del capo dello Stato, entrambi, il giornalista precocemente reclutato dalla Dc, in bilico tra l’unzione di Andreotti e quella di De Mita, e l’opinionista che in gioventù fu sedotto dai canti inneggianti al “partito dell’insurrezione” prima di entrare nella corte di Agnelli (il “piombo” delle rotative manteneva sempre il suo fascino), vedono il simbolo “rosso” che si è insinuato nelle stanze repubblicane.
Secondo la chiave antisistema abilmente maneggiata dai due direttori, Napolitano incarnò quella cultura dello Stato e delle regole – il mito della stabilità delle istituzioni come valore essenziale in giunture critiche che tracimano nella sfera economico-finanziaria – contro la quale hanno nutrito negli anni pesanti riserve sostanziali. I loro bersagli preferiti sono stati, tra i post-comunisti, soprattutto quelli più dotati di uno spirito di autonomia politica, e perciò puntualmente braccati come i custodi della non troppo amata repubblica dei partiti. Cruciale si rivelò, agli inizi degli anni 90, la regia in salsa antipartitocratica attraverso la quale Mieli guidò il coro omologato dei media contro le logore nomenclature e a sostegno del devastante nuovismo populista che avanzava con il tintinnar di manette.
Anche la seconda ondata demagogica, che entrò in gestazione nel 2007 per poi esplodere nel 2013, vide l’indiscusso protagonismo del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera che lanciò un autentico ordigno confezionato da Stella e Rizzo contro la Casta: il libro, uscito a maggio del 2007, fece da apripista per il “Vaffa-Day” tenutosi a settembre, preparando così la futura conquista “comica” del Palazzo (“non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”, cantavano i pentastellati nello “Tsunami tour”). Editorialisti di spicco di via Solferino – prima di transitare tra le camicie verdi di Salvini e poi in quelle nere di Meloni – dichiararono non a caso il loro voto nel 2013 a Grillo, salutato come il giustiziere della partitocrazia nascosta ormai solo al Nazareno.
Nel settembre del 2012, lo stesso Mieli con Padellaro partecipò alla festa del Fatto quotidiano nella quale sul banco degli imputati figurava proprio il Quirinale, condannato a ogni piè sospinto come il centro di espropriazione delle libertà costituzionali, e perciò da graffiare attraverso un movimento di liberazione popolare contro le élite. Con lucidità di visione, in quell’occasione Mieli affermò che il dato di partenza – premessa necessaria per agire nella situazione concreta – era chiaro: “l’establishment non si fida del centrosinistra” a guida Bersani.
E dunque non mancavano spazi per un’attività movimentista la quale smascherasse il Colle come potenza ostile che aveva abolito le elezioni, mentre solo le sacre schede potevano decidere i governi nei “Paesi civili dell’orbe terracqueo” (ecco svelato l’ispiratore lessicale di Meloni). Il trucco dei cosiddetti poteri forti dell’informazione è sempre lo stesso: invocano la soluzione tecnocratica in funzione salvifico-emergenziale, accarezzandola come conferma alla loro idea del fallimento dei politici di professione, e poi infilzano senza pietà proprio il partito, storicamente sempre appartenente al fronte del centrosinistra, più esposto nel sostegno parlamentare ad un esecutivo oramai resosi impopolare.
Arrivano a preparare finanche assalti al sistema politico denunciando “ammucchiate” e restringimenti della sovranità del popolo. Ancora adesso Mieli imputa a Napolitano l’innesco di una strategia interventista dal Quirinale che avrebbe strapazzato le prerogative del Parlamento (quasi il 90% dei deputati sosteneva però Monti, che l’allora presidente di Rcs disse peraltro di avere pure votato quando si presentò con la lista personale “Scelta Civica”). La natura problematica dei governi cosiddetti “del presidente” è indubbia. Surrogato all’italiana della “larga coalizione”, l’esecutivo a guida tecnica si è confermato in ben tre occasioni come un preludio quasi regolare alle eruzioni antipolitiche (tornate elettorali del ’94, del 2013 e infine del 2022).
E però non esistono parentesi di supplenza, sotto gli occhi vigili del discreto controllo presidenziale, senza un esplicito supporto dei partiti che in maniera quasi unanime cedono lo scettro al tecnico di turno. Al costoso – in termini di consenso – governo Monti, le forze politiche, poi travolte nelle cabine, avrebbero potuto opporsi, oppure – se questa opzione di lotta era impossibile – operare affinché la sua durata si limitasse alla gestione dell’emergenza, con il varo della legge finanziaria e l’abbassamento dello spread. Sulla opportunità di anticipare le elezioni al 2012, nell’ottica di frenare l’usura delle sigle tradizionali, il Quirinale non si sarebbe messo di traverso.
Il Corriere e i sodali più stretti di Montezemolo lavorarono in quei mesi su un doppio binario: da un lato, fornirono le munizioni a Monti, spingendo con loro uomini e mezzi per accompagnare la “salita in campo” dell’ex rettore bocconiano, il quale, sedotto dal sogno bonapartista di un’acclamazione ex post, ruppe il patto di lealtà con Napolitano; dall’altro, vedendo che il loro terzo polo tecnico-civico, malgrado lo show del premier con il cagnolino in Tv, stentava nei sondaggi, garantirono un’assistenza preziosa al giro di Grillo nelle piazze dense di rancore. Lo reputavano un semplice fattore di disturbo capace di bloccare la conquista di una maggioranza autosufficiente da parte di Bersani (bastonato in malo modo proprio dal giornale di Padellaro per le vicende della banca senese a urne quasi aperte) e rendere così nuovamente indispensabili le larghe intese, anche dopo il sacro pronunciamento dei cittadini.
Dopo aver fatto l’apostolo della sovranità popolare calpestata, Mieli nel marzo del 2013 scoprì le carte e invocò un nuovo governo tecnico, magari non più presieduto da Monti. E le penne del Corriere che avevano optato per il M5s insorsero contro il tentativo di dialogo tra Pd e grillini, stigmatizzato come un cedimento antipolitico dell’ultimo partito responsabile rimasto su piazza. L’impatto del comico genovese, che per certi ambienti influenti doveva risultare un semplice impaccio momentaneo, fu invece travolgente. Le scelte politico-istituzionali di ogni presidente della Repubblica, come “gestore delle crisi parlamentari”, possono essere variamente interpretate e, nel caso, anche disapprovate con forza, magari non brandendo la “piazza” più volte evocata da Grillo per combattere il “golpetto” di Napolitano.
Un trattamento diverso di Bersani dopo la sua “non vittoria” avrebbe con ogni probabilità accompagnato ad una diversa evoluzione del quadro politico e assicurato l’innalzamento di qualche argine in più alla deriva democratica. Sullo sfondo, però, pesa l’evidenza storica dello sfaldamento del Pd, della sua decomposizione avviata già prima del voto del 2013 con l’inopinata rottamazione di figure come D’Alema. Per i nodi culturali irrisolti, i dem erano ormai diventati essi stessi un fattore di decadenza del sistema. Il partito dei tecnici, disegnato dalle élite mediatico-finanziarie, e il non-partito del comico, incoraggiato dai laboratori informatici di influenza, raccoglievano sicuramente istanze e malesseri peninsulari, ma nel loro tragitto si avvertivano anche gli echi di dinamiche di carattere sovranazionale.
In ogni caso la presidenza “italo-europea”, che Napolitano inaugurò, ha operato in questo scenario di una democrazia fragile e obbligata per via della sua stessa vulnerabilità (non solo finanziaria) a intrattenere legami di riconoscimento, prassi di contrattazione, interlocuzioni sempre più frequenti con le grandi cancellerie. Per questo incastro che si è creato tra i molteplici livelli istituzionali nei Paesi occidentali, i toni emersi nei messaggi dei più importanti leader internazionali suonano, oltre che riconoscenti, molto più pregnanti, circa la funzione storica ricoperta dal presidente Napolitano, rispetto alle accuse di opportunismo pronunciate in maniera alquanto provinciale da Padellaro e Mieli. Sconfitto dinanzi alle antipolitiche corrispondenze del Fatto e della vecchia Rizzoli, Napolitano si riprende, con l’apprezzamento degli statisti di ogni parte del mondo, il prestigio che aveva accumulato nel corso del suo mandato, in un tempo di crisi e insorgenza populistica.