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Storia della presidenza di Giorgio Napolitano: l’unico messaggio alle Camere sull’emergenza carceri

Storia della presidenza di Giorgio Napolitano: l’unico messaggio alle Camere sull’emergenza carceri

1. Della lunga presidenza di Giorgio Napolitano c’è un significativo passaggio che – in queste giornate commemorative – non è stato adeguatamente ricordato. Proviamo a farlo noi che ne siamo stati testimoni e compartecipi. Cronologicamente, si colloca tra la coda del suo primo settennato e uno degli atti istituzionali più rilevanti del suo successivo mandato: il messaggio inviato alle Camere – l’unico della sua presidenza – dedicato alla questione carceraria.

2. Tutto prende avvio dal convegno per la riforma della giustizia, promosso in Senato dal Partito Radicale. È il 28 luglio 2011. A inaugurarlo è il Capo dello Stato con un intervento tutt’altro che rituale. Soppesate con cura, pronuncia parole fiammeggianti per denunciare al Paese la condizione carceraria: è «una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile» che ha raggiunto un «punto critico insostenibile», «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibili in qualsiasi paese appena appena civile».

«Evidente in generale – proseguiva il Presidente Napolitano – l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita». Non è un’opinione, né un retroscena. È un fatto, attestato dalla più Alta carica dello Stato: quella detentiva è una condizione di conclamata, flagrante illegalità.

3. Denunciando l’orrore della vita quotidiana nei manicomi giudiziari, il presidente Napolitano aveva ancora negli occhi le atroci immagini riprese durante ispezioni parlamentari svolte, senza preavviso, nei sei OPG esistenti in Italia: «Strutture pseudo ospedaliere che solo coraggiose iniziative bipartisan di una Commissione parlamentare [d’inchiesta sul servizio sanitario, guidata dal senatore Marino] stanno finalmente mettendo in mora». Il regista Francesco Cordio ne trarrà un docufilm esemplare (Lo Stato della follia, 2013).
Quelle parole del presidente Napolitano saranno il miglior viatico per la loro chiusura definitiva, stabilita con legge (n. 81 del 2014) e concretamente realizzata grazie al tenace lavoro del Commissario ad acta nominato dal Governo. Il superamento dell’ultimo residuo manicomiale ha così restituito anche ai folli-rei diritti e umanità.

4. Tutto in salita, invece, sarà il seguito della denunciata illegalità di corpi reclusi in celle stipate fino all’inverosimile. Con intelligenza politica, Marco Pannella coglie immediatamente l’eccezionale rilevanza delle parole di Napolitano («prepotente urgenza») e rilancia: vuole che il Quirinale investa il Parlamento del problema, usando la prerogativa presidenziale del messaggio alle Camere. Pannella aveva ragione. Una questione è urgente quando richiede interventi immediati e rapidi; è l’opposto del «puoi farlo quando credi». Se quell’urgenza è anche prepotente, vuol dire che s’impone come priorità assoluta da affrontare senza indugi. Il Capo dello Stato onori allora le proprie parole, perché anche per lui deve valere la regola del «dico quel che penso e faccio quel che dico».

Per centrare l’obiettivo, il leader radicale sollecita la dottrina costituzionalistica a prendere un’iniziativa. Ne nasce una lettera-aperta, rivolta al presidente Napolitano, che raccoglie numerosissime e autorevoli adesioni tra i giuristi e i garanti dei detenuti (la si può leggere in appendice a un nostro volume: Il delitto della pena, Ediesse, 2012). Il suo testo suffraga la denuncia del Quirinale con preoccupate argomentazioni giuridiche ed eloquenti dati numerici.

E rivolge al Capo dello Stato la richiesta di un suo messaggio (ai sensi dell’art. 87, comma 2, Cost.) che chiami il Parlamento a sciogliere l’intreccio tra i tempi biblici della giustizia penale e il sovraffollamento carcerario, anche attraverso il ricorso a strumenti di clemenza generale: i soli idonei a interrompere, subito, una persistente situazione d’illegalità interna e internazionale. A quell’interlocuzione (cui lavorò con passione e competenza il consigliere Loris D’Ambrosio) il presidente Napolitano non si sottrae. Risponde pubblicamente, il 25 luglio 2012, sulle pagine del Corriere della Sera. E invita al Quirinale una delegazione dei firmatari della lettera-aperta.

5. L’incontro si svolge il 27 settembre 2012. Entrambi facevamo parte di quella delegazione (con Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky). Ricordiamo bene la lunga conversazione con il presidente Napolitano che, con franchezza, ci illustra le ragioni per cui non intendeva rivolgere un formale messaggio alle Camere. È una facoltà – ci dice – non un obbligo, rivendicando così la scelta di non esercitare tale prerogativa, come già altri suoi predecessori.

È un’arma scarica – ci ricorda – che mai ha innescato un processo deliberativo parlamentare, anzi: talvolta il messaggio è stato ignorato, incrinando così l’autorevolezza presidenziale. Nell’era della comunicazione di massa – aggiunge – il messaggio formale cede il posto all’esternazione, al discorso pubblico, alla nota ufficiale diffusa in rete. Terminato l’incontro, però, detta un comunicato stampa in cui segnala alle Camere «sia le questioni di un possibile, speciale ricorso a misure di clemenza, sia della necessaria riflessione sull’attuale formulazione dell’art. 79 Cost. che a ciò oppone così rilevanti ostacoli». Gli avvenimenti successivi dimostreranno che aveva ragione lui, a temere un messaggio inascoltato, ma che noi non avevamo torto, nell’avvertire il Capo dello Stato che il Paese andava incontro a una condanna esemplare davanti alla Corte europea dei diritti umani.

6. A mutare lo scenario sarà proprio la sentenza-pilota della Corte di Strasburgo (Torreggiani, 8 gennaio 2013): con voto unanime, condanna l’Italia per un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico» che trasforma la detenzione in una pena inumana e degradante, chiamando tutti i poteri statali ad agire «senza indugio». Rieletto al Quirinale da pochi mesi, Napolitano svolge egregiamente la sua parte indirizzando il messaggio alle Camere. È l’8 ottobre 2013.

Quel testo, ancora oggi, rivela una struttura sapiente. Prospetta una strategia complessiva che prevede «congiuntamente» una serie di interventi capaci di fermare la catastrofe (i rimedi straordinari dell’amnistia e dell’indulto), di limitare i danni (l’aumento della capienza complessiva degli istituti penitenziari) e di risalire la china (attraverso mirate riforme dell’ordinamento penitenziario). E lo fa con i giusti toni: la condanna dell’Italia è definita un «fatto di eccezionale rilievo»; «imperativo», «dovere», «obbligo», sono parole che nel suo messaggio ricorrono dieci volte, spesso insieme all’aggettivo «costituzionale».

Eppure, Camera e Senato non lo discuteranno mai. Per la clemenza necessaria – si disse – non esistevano le condizioni politiche. Quasi che potessero d’incanto materializzarsi da sole. Quasi che la politica non consistesse proprio nell’agire trasformando. La saldatura tra posizioni securitarie, giustizialiste e populiste impedì finanche la calendarizzazione del dibattito. Fu un silenzio imbarazzante: per chi lo mise in atto, non certo per chi l’ha subito.

Ancora oggi paghiamo, con il record di suicidi dietro le sbarre, quell’occasione sprecata. Allora, Giorgio Napolitano rivelò una cultura politica consapevole che la bulimia di reati e pene non serve alla sicurezza «che ne viene più insidiata che garantita». Basta sfogliare settimanalmente la Gazzetta Ufficiale per capire che quella cultura, da tempo, non abita nelle stanze del Governo e nelle aule parlamentari.