La figura del Presidente
Chi era veramente Giorgio Napolitano, uomo di sinistra che citava Marx e il Che
Alcune letture vorrebbero trasformarlo in una sorta di icona liberale transitata a sinistra soltanto per sbaglio. Io che l’ho conosciuto voglio tranquillizzarvi: citava Marx e pure il Che
Editoriali - di Paolo Franchi
Piero Sansonetti vede il pericolo che, salutato Giorgio Napolitano, si voglia sotterrare anche l’eredità del Pci. E, dopo aver sottolineato che questo non sarebbe solo un errore, ma un delitto, perché comporterebbe la morte della sinistra, promette che “questo piccolo giornale corsaro farà di tutto per impedire che questo avvenga”. Sono d’accordo, e non solo perché continuo a considerare il Pci una parte importante, forse la più importante, della mia vita, nonostante dal partito (ma non dalla sinistra) io me ne sia andato più di quarant’anni fa. E sono pure convinto che questo “piccolo giornale corsaro” farà la sua parte per impedire che il delitto si consumi.
Ma non posso nascondere né a me stesso né a chi leggerà queste righe il timore che, in realtà, sia già stato in gran parte consumato. E molto di quel che ho letto e sentito in questi giorni su Giorgio Napolitano non ha certo contribuito a dissolverlo. Non sto parlando tanto delle infamità comparse sui social, e nemmeno delle canagliate, non meno infami e grottesche, che ho letto sui giornali di destra. Quanto piuttosto dello stordimento politico e intellettuale in cui paiono incappati, tranne rare eccezioni, analisti, politologi, commentatori che della storia repubblicana e della parte fondamentale del Pci che vi ha avuto Napolitano, dovrebbero avere una conoscenza un po’ meno rudimentale. Senza avere contezza di questa storia non si capisce un bel nulla nemmeno del modo in cui Napolitano, che la ha vissuta in primissima persona, ha esercitato, in Italia e in Europa, il ruolo di uomo delle istituzioni.
E dunque ci si perde in sciocchezze sulle gesta di “Re Giorgio”, sul suo presunto strabordare dal ruolo assegnatogli dalla Costituzione, sui fantomatici complotti di cui sarebbe stato protagonista, e via (mal)dicendo. E dunque sì, parliamone della storia di un partito che non era un “accampamento di cosacchi” (la definizione è di Palmiro Togliatti) in un Paese del cosiddetto “mondo libero”, ma una parte ben viva, e assai grande, del popolo italiano, un soggetto fondamentale della costruzione della democrazia italiana. Sansonetti ha ricordato che il Pci era fatto di un centro largamente maggioritario, di una destra e di una sinistra. Vero, anche se si dovrebbe aggiungere che il centro prevaleva quasi per definizione, ma non in solitudine: il più delle volte si appoggiò alla destra per tenere a bada la sinistra, meno spesso (capitò negli ultimi anni di Enrico Berlinguer) si appoggiò alla sinistra per emarginare la destra.
Tutto questo era reso possibile, per dirla in soldoni, dal miracolo di Palmiro Togliatti. Che al suo ritorno da Mosca disegnò un partito (il partito nuovo) in cui potevano coesistere, e coesistere tutto sommato bene, filoni politico culturali, generazioni e personaggi assai diversi: eredi della Destra storica come Giorgio Amendola, giovani che avevano cominciato a maturare la loro scelta di vita nelle organizzazioni universitarie fasciste, faccio per tutti i nomi di Napolitano e di Pietro Ingrao, e, seppure in una condizione di crescente emarginazione, quadri che venivano dal tempo delle galere e dell’esilio. Può essere, per carità, che questa sia stata solo una maschera, dietro la quale l’astuto Palmiro riuscì a celare il volto vero di un partito al soldo di Baffone e dei suoi successori.
Può essere, ma in questo caso fatico a comprendere come abbia fatto un pugno di agenti di Mosca a mettere radici così vaste e profonde; a reggere e a superare (pensiamo solo alla sconfitta del Fronte Popolare nel 1948 e all’“indimenticabile 1956”) prove terribili; a radicarsi profondamente non solo nella classe operaia, ma nella società italiana, e quindi ad accrescere costantemente i propri consensi, giungendo, nel 1975 e nel 1976, a sfiorare il sorpasso sulla Democrazia cristiana. Questo era, o almeno questo si proponeva di essere, il partito al quale il giovane intellettuale borghese Giorgio Napolitano, come tanti giovani intellettuali borghesi di allora, aderì, superando non poche titubanze, nella Napoli del 1945. Certo, a spingerlo in questa direzione fu, come egli stesso ha ricordato più volte, “un impulso morale, piuttosto che motivazioni ideologiche”.
Ma tendo ad escludere – e comunque Napolitano lo escludeva – che in questa scelta Togliatti ci entrasse poco o nulla. E penso pure, non è una bestemmia, che qualche parte vi abbiano avuto anche Giuseppe Stalin e il mito di Stalingrado: la vittoriosa coalizione antifascista mondiale era saldamente in piedi, di guerra fredda non si parlava, per i soldati americani che scorrazzavano per Napoli Baffone era ancora uncle Joe, zio Peppino, così come (curiosissima analogia) era zu Peppi per i contadini poveri e i braccianti siciliani che occupavano le terre innalzando la bandiera rossa e la bandiera tricolore, nonché, spesso anche le effigi dei santi patroni. Vecchie storie, per carità. Ma, non avendone qualche contezza, si finisce col porsi interrogativi insensati, come quello sollevato proprio sull’Unità da Vittorio Ferla, che si chiede se Napolitano sia stato l’ultimo comunista o il primo socialdemocratico, si risponde optando decisamente per la seconda soluzione, e tra le prove adduce la testimonianza dell’ex consigliere diplomatico del presidente emerito, Stefano Stefanini, che assicura di averlo spesso sentito citare Croce e Keynes, mai Marx.
A me, a dire il vero, è capitato tante volte di sentirlo citare Marx (che, si rassicuri Ferla, non era un neo platonico), nonché di leggere sue impegnate prefazioni a scritti di Lenin e di assistere a sue pubbliche celebrazioni dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. E dove la mia memoria si arresta, mi soccorre quella del direttore di questo giornale che ricorda meglio di me la manifestazione unitaria per il Cile a Roma, piazza Santi Apostoli, all’indomani del golpe di Pinochet. “Lo faremo anche per te, comandante Che Guevara!”, gridò con voce strozzata dal palco Napolitano, a conclusione di un discorso misuratissimo, in cui non aveva mancato di sottolineare, accanto ai doveri della solidarietà militante, le critiche agli errori di massimalismo in cui erano incappate le sinistre cilene, a dire il vero i socialisti di Altamirano ben più dei comunisti di Corvalan. Potrei continuare a lungo. Ma il punto non è questo.
Il punto è che, almeno a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, Napolitano è stato il comunista italiano che si è spinto più avanti sulla strada del revisionismo politico, teorico e culturale: e “revisionismo”, vale la pena di ricordarlo, è, nella tradizione del movimento comunista, peggio che una parolaccia. Su questa strada – senza strappi clamorosi e senza abiure – è andato assai oltre il “rinnovamento nella continuità” di togliattiana memoria e si è posto in obiettiva collisione con Enrico Berlinguer, che con molti grandi capi del socialismo del suo tempo, da Brandt a Mitterrand aveva un ottimo rapporto, e che però considerava la socialdemocrazia costituzionalmente subalterna al capitalismo. Non ne riepilogherò qui le tappe, documentabilissime e documentate. Dirò solo che è stata, quella di Napolitano, una marcia lunga e costante, che lo ha portato a rendere sempre più esplicita una convinzione maturata nel tempo.
A suo giudizio il Pci, tra luci e ombre, tra coraggiose innovazioni e resistenze conservatrici, era andato, “oltre i vecchi confini”, sempre più caratterizzandosi nei fatti come una grande forza democratica e riformatrice di ispirazione socialista o, se preferite, socialdemocratica, senza mai riuscire però, a emanciparsi convintamente e compiutamente dai vincoli che gli erano imposti dal suo stesso atto di nascita e dai condizionamenti, internazionali e non solo, che ne derivavano. E questa contraddizione (ben espressa da Berlinguer quando si dichiarò comunista per fedeltà agli ideali della sua giovinezza) pesava sempre più gravemente non solo sul Pci, ma su tutto il sistema politico italiano, perché, rendendo impossibile un’alternativa, o anche più semplicemente un ricambio delle forze di governo, ne favoriva il degrado.
Non se ne usciva – sto sempre cercando di sintetizzare all’estremo – coltivando l’illusione che Gorbaciov riuscisse non solo a riformare il “socialismo reale” ma addirittura a restituirgli la “spinta propulsiva” perduta, e neppure buttando a mare, o nascondendo sotto il tappeto, la propria storia, ma rielaborandola criticamente, e cercando di mettere nella giusta luce sia “le buone battaglie” sia “le cause sbagliate” di cui era costellata, e che spesso si erano intrecciate così strettamente da sembrare indissolubili (per dire: il Togliatti nazionale e riformatore di “Ceti medi e Emilia Rossa” e del “Discorso su Giolitti” era lo stesso Togliatti che fino all’ultimo non prese nemmeno in considerazione l’idea di spezzare il “legame di ferro” con l’Unione Sovietica).
Ma soprattutto da questa storia non si usciva da soli. Si trattava di rendere cosa viva, ed operante, la dichiarazione di principio che voleva i comunisti italiani “parte integrante del socialismo europeo”. E in Italia di attualizzare e ravvicinare un obiettivo storico, quello della ricomposizione unitaria del socialismo italiano. Ad Amendola, che lo aveva indicato in solitudine nel lontano 1964, non solo la sinistra, ma pure il centro del Pci obiettarono che la sua sortita non poteva avere seguiti concreti in assenza di interlocutori politici, visto che Pietro Nenni era impegnato a superare la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini (1947), non quella comunista di Livorno. A Napolitano, che pure, all’opposto di Amendola, preferiva il fioretto alla sciabola, vent’anni dopo o giù di lì si mosse una contestazione tutto sommato analoga.
Di quale ricomposizione parlava mai, visto che padrone del Psi era diventato un avventuriero di nome Bettino Craxi, che per unità socialista intendeva prima la resa incondizionata, poi l’annessione del Pci? Pretende una diffusa vulgata che a Napolitano (“Coniglio bianco in campo bianco”, lo definì Giuliano Ferrara, che pure gli voleva bene) abbia fatto difetto, prima e dopo la Bolognina, il coraggio politico necessario per dare battaglia all’interno del partito, nonostante avesse dalla sua homines togliattiani del rango di Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte, Paolo Bufalini, dando vita in tempo utile a una combattiva corrente di opposizione.
Come in tutte le vulgate, anche in questa c’è qualche elemento di verità, Napolitano è stato un uomo politico di prima grandezza, ma un lottatore politico non lo è stato mai. E tuttavia credo che la questione, come si diceva un tempo, sia un’altra, e abbia molto da spartire con la storia e la cultura politica del Pci, e segnatamente del suo gruppo dirigente, e all’interno di questo di Napolitano, per le quali l’unità del partito, per quanto forti e radicali potessero essere i contrasti, era un bene in sé, un valore assoluto che non poteva e non doveva essere messo in discussione. Ma quel partito, e quel gruppo dirigente, sul finire degli anni Ottanta non c’erano più da un pezzo.
Napolitano e i suoi compagni, divenuti quasi degli ospiti indesiderati in quella che da una vita consideravano casa loro, non potevano non averlo intuito. Ma rifiutarono, prima di tutto a se stessi, di riconoscerlo e in ogni caso non ne trassero le conseguenze. Non so quale piega avrebbero preso le vicende del Pci e della sinistra se lo avessero fatto. Ma è certo che, quando lo fecero, era ormai troppo tardi.