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Intervista a Sarah Jaffe: “Le macchine non potranno mai farsi realmente carico del nostro dolore”

Intervista a Sarah Jaffe: “Le macchine non potranno mai farsi realmente carico del nostro dolore”

Nella complessa trama del mondo del lavoro contemporaneo, la distinzione tra differenti settori e professioni sembra a volte un muro invalicabile. Ma è davvero così? Sarah Jaffe, giornalista statunitense che tratta di giustizia economica, movimenti sociali, genere e cultura pop, ci invita a sfidare questa percezione esaminando con perspicacia non solo il dolore e la sofferenza inerenti al lavoro, ma anche le sottili interconnessioni che legano, ad esempio, i minatori del passato agli operatori sanitari del presente. Lo fa esplorando il concetto di deindustrializzazione non come fenomeno isolato ma come un vortice che risucchia con sé l’intera struttura sociale.

Jaffe individua dietro tutto questo un comune denominatore: la privatizzazione come strumento per massimizzare i profitti, a discapito del benessere individuale e collettivo. Durante l’intervista l’autrice di Il lavoro non ti ama ha speso sia parole di lotta che di speranza. I nuovi movimenti di resistenza, le rinnovate lotte sindacali e la solidarietà emergente tra diverse categorie di lavoratori e lavoratrici a suo avviso potrebbero rappresentare il primo passo verso la costruzione di un nuovo contratto sociale, capace di porre al suo centro la dignità umana e il benessere collettivo, trasformando l’attenzione pubblica e il sostegno emotivo in azioni politiche concrete.

Ho notato che i tuoi libri precedenti – Necessary Trouble su attivismo e proteste dei movimenti negli Stati Uniti e Work wont love you back sullideologia del lavoro – hanno avuto un ottimo tempismo. Sono usciti, cioè, in un momento in cui cera un enorme bisogno di quel tipo di riflessioni chiare e profonde sugli argomenti in questione. Ho saputo che la prima bozza del tuo nuovo libro è pronta: pensi che anche in questo caso avrai un tempismo perfetto?
Lo spero, ma non si può mai davvero sapere in anticipo. Comunque sì, ho appena finito la prima bozza di un libro sul dolore. Che, fortunatamente o sfortunatamente, è un tema universale. Si tratterà pur sempre un libro politico, perché è il dolore stesso oggi a essere un tema eminentemente politico. Sto scrivendo della violenza della polizia e del movimento Black Lives Matter, di immigrazione, di deindustrializzazione, degli effetti sulla povertà della pandemia di COVID-19 e del cambiamento climatico. Immagino che questo libro sia troppo specifico per avere lo stesso tempismo dei precedenti, anche se chissà quali cose terribili potrebbero accadere da qui a quando uscirà. Ecco, adesso sono un po’ preoccupata.

Quel che dici mi fa pensare a una questione: la connessione tra il dolore e lintelligenza artificiale. Mi pare, cioè, che in questo momento stiamo cercando di evitare, superare e trasformare il dolore utilizzando lintelligenza artificiale. E non possiamo che fallire, come al solito.
Penso che quello che stiamo cercando di fare attraverso l’intelligenza artificiale sia la stessa cosa che il capitalismo ha cercato di fare per centinaia di anni, ovvero sostituire i lavoratori con le macchine. Il fatto è che adesso la macchina sta cercando di sostituire gli operatori culturali come me e te, invece degli operai manifatturieri o dei minatori di carbone. Quindi penso che il problema, a meno che tu non sia una di quelle persone che crede che prima o poi ci trasformeremo in “persone digitali” o qualcosa del genere, è che in ogni caso le macchine non potranno farsi realmente carico del nostro dolore. C’è questa strana idea secondo cui gli algoritmi potrebbero sostituire le persone nella vita umana, e che i robot saranno in grado di svolgere perfettamente i lavori di cura. Tutto ciò, semplicemente, lo reputo impossibile. Non amo film come Blade Runner e affini, che spingono a chiedersi quale sia la responsabilità umana nei confronti degli androidi qualora fossero abitati da una qualche coscienza. Si tratta di belle idee per un film di fantascienza, ma non credo che tutto questo sia effettivamente possibile nella vita reale. Il dolore umano, al contrario, è molto reale. Sono convinta che potremmo provare meno dolore, o quantomeno meno dolore traumatico e inutile, ma allo stesso tempo penso che soffrire faccia parte della vita; non potremo mai liberarcene del tutto, banalmente perché non possiamo evitare la morte. Abbiamo quindi bisogno di una società che valorizzi davvero e dia tempo al dolore.

In Italia è stato difficile tradurre letteralmente il titolo del tuo libro, Work won’t love you back. È stato reso con Il lavoro non ti ama, ma in questo modo è andato perduto il fatto che il lavoro non “ricambi” l’amore.
Viviamo in una cultura che ci spinge a investire enormemente in qualcosa che, alla fine della giornata, rimane un oggetto, un luogo, una funzione. È il posto in cui si va a lavorare, è l’attività che si svolge; nel mio caso, scrivere un libro e poi subito un altro, come se non avessi appreso nulla dalla prima esperienza. La verità è che il mio libro non ha la capacità di amarmi. Al momento, ne ho solo una versione PDF sul mio computer. Questo file digitale non può accudirmi quando sono malata, né mostrare preoccupazione per il mio benessere. Il mio computer non mi suggerisce di spegnerlo quando sono sotto stress. Recentemente ho dovuto ricorrere a un trattamento viso professionale perché la mia pelle risentiva delle lunghe ore passate davanti allo schermo. Il mio computer non può fornirmi quel tipo di cura, né ha la capacità di segnalarmi che ne ho bisogno. Tutto ciò che può fare è rimanere silenziosamente acceso mentre digito. Questo è un aspetto della questione. L’altra faccia della medaglia riguarda i datori di lavoro, che sono esseri umani e spesso dicono di tenere a noi. Anche nel migliore dei lavori che ho avuto, con un capo che è ancora mio amico, quando i fondi sono esauriti lui ha dovuto licenziarci. Non perché fosse indifferente ai nostri bisogni, ma perché la struttura dell’intero sistema non permetteva di mettere al primo posto il nostro benessere. Non aveva le risorse finanziarie per mantenerci tutti a libro paga di tasca sua. Quindi, anche quando ci sono datori di lavoro che potrebbero sinceramente preoccuparsi per noi, la natura del rapporto lavorativo e le limitazioni del sistema non lo permettono.