L'intervista a Drigo
Il ritorno dei Negrita, in tour elettrico in tutta Italia: “Si può dire ancora rock and roll?”
Dopo un tour nei teatri e un momento di stop, la band aretina torna alla sua dimensione preferita. "Sentivamo proprio l’esigenza del palco". Oltre 30 anni di carriera, 16 album, innumerevoli concerti. La chitarra solista ripercorre una storia rock
Interviste - di Antonio Lamorte
Attaccare la spina alla chitarra elettrica, alzare il volume degli amplificatori dopo anni di stucchi e sgabelli: è come trovare la chiave, infilarla nella toppa. È come tornare a casa per i Negrita, dopo un tour acustico di circa tre anni culminato nel grande evento Mtv Unplugged, appena ripartiti per un nuovo tour elettrico tra club e palazzetti. E quindi nella loro dimensione preferita. “Lo spettacolo è essenziale, abbiamo eliminato i contribuiti video, ci sono soltanto luci. Solo rock and roll, si può dire ancora rock and roll?”, si chiede Enrico Salvi in arte Drigo, il chitarrista della band nata nell’aretino oltre trent’anni fa. Sedici album, dieci in studio, tre live e tre raccolte. I Negrita sono ripartiti da Brescia sabato scorso, il prossimo appuntamento a Napoli venerdì 6 ottobre alla Casa della Musica. Diverse date già sold out.
Come sono andate queste prime date?
Avevamo proprio l’esigenza di tornare sul palco, volevamo ricalcare quegli ambienti in cui passavamo agli inizi, certo ora sono molto più grandi. È la dimensione perfetta per la band, ci esprimiamo al meglio. C’erano tante aspettative, la prova del nove è arrivata sul palco. È andata bene.
Da dove veniva questa esigenza?
Da un periodo di semi-inattività. Dopo la routine di anni e anni e alcune tensioni tra di noi eravamo arrivati a un punto di saturazione e abbiamo avuto bisogno di allontanarci un po’. Non ci sembrava sensato entrare in studio e metterci a lavorare su un album in questa situazione, anche perché da un certo punto della nostra carriera in poi, componiamo principalmente in tour.
Dopodomani a Napoli. E una canzone faceva così: “Rio Bahia Santiago Holguin, Buenos Aires Napoli”. Cosa c’entrava Napoli, perché Napoli?
Rotolando verso sud appartiene all’album L’uomo sogna di volare (2005). È stato un disco fondamentale, ci aprimmo a nuove sonorità grazie a questo viaggio di circa un mese e mezzo in Sudamerica. Era un momento difficile per la band. Attraversavamo Paesi che conoscevamo dai libri o dai film, davvero erano lontani da noi, era tutta una scoperta anche dal punto di vista antropologico, sociale, politico. Abbiamo scoperto tanti generi musicali nei loro Paesi d’origine, vivevo in un continuo stato di meraviglia. Quando ho conosciuto le radici della Bossa Nova in Brasile mi sono commosso. Abbiamo finito per fare quello che avevano fatto gruppi come i Clash, i Mano Negra, band che hanno messo insieme rock and roll, punk, reggae, aprendosi a qualsiasi altra influenza trovata interessante. Quell’attitudine l’abbiamo mantenuta fino alle ultime cose che abbiamo scritto.
Rotolando verso sud fu un po’ il manifesto di quel cambiamento.
Napoli è finita in mezzo a quel pugno di città, che avevamo visitato, perché è un luogo del cuore, lo è sempre stata. Per noi rappresenta la città più “negra” d’Italia, quella musicalmente più contaminata, ricca di artisti che per noi sono stati importanti come Pino Daniele, Edoardo Bennato. Era inevitabile che finisse in quella canzone.
Il vostro nome, Negrita, vi ha creato mai problemi, soprattutto di questi tempi?
Mai, non ci è mai successo di sentire qualcuno che l’abbia trovato offensivo. Viene da una canzone dei Rolling Stones, Hey Negrita. Se a una prima reazione superficiale dovesse sembrare problematico, appena si approfondisce il senso del nome si capisce che in realtà è un omaggio. Il politically correct non sempre ci interessa, di questi tempi c’è sempre qualcuno che si offende per qualsiasi cosa. Lo sceglierei di nuovo, al 100%.
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Avete partecipato a Sanremo nel 2019 con I ragazzi stanno bene. Faceva così: “Dei fantasmi sulle barche e di barche senza un porto/come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco”. Erano gli anni del governo Conte 1, Movimento 5 Stelle e Lega, dei decreti sicurezza di Salvini. La situazione non sembra migliorata.
Direi di no, anzi sembra anche peggiorata. Ormai la sensazione è che tutto quello che riguarda il mondo dell’informazione appartiene a loro. Se ci sono arrivati però evidentemente qualche errore è stato fatto anche a sinistra.
In molti hanno conosciuto la vostra musica a partire dal film di Aldo Giovanni e Giacomo Così è la vita (1997). Che esperienza è stata lavorare a quella colonna sonora?
Una bellissima avventura. Ci ha dato la possibilità di fare musica in tutt’altra maniera. Ricordo che mandavano un pacco, aprivo e mettevo la videocassetta con quello che stavano girando e improvvisavo sopra. Poco prima che partissero con le riprese ci vedemmo in una casa che avevano preso in affitto sull’Argentario dove lavoravano alla sceneggiatura, ci raccontarono e ci fecero capire cosa si aspettavano. A cena ci sedemmo a tavola con loro e inizialmente non capivamo cosa stessero facendo: si comportavano come se noi non ci fossimo, parlavano tra di loro, facevano battute, botta e risposta. Dopo una decina di minuti che ci sembrava stessero parlando un po’ a vanvera abbiamo capito: era una specie di gara, una specie di gioco, approfittavano di quel momento di convivio per fare quello che facciamo anche noi, stavano facendo una jam in pratica, improvvisavano. E appena arrivava la battuta buona c’era un loro collaboratore che se l’appuntava. Tutto senza dirci nulla.
Se dovesse scegliere tra tutti uno dei suoi riff?
Lo lascerei fare agli altri, non ho delle preferenze. Più che altro mi piace vedere la reazione del pubblico. Quando partono quelli di Bambole o di Ogni atomo è potente. Spesso mi dicono di quello di Cambio.
Le piace il rock che si suona oggi in Italia?
E chi è che fa rock oggi in Italia? Oltre ai Maneskin, ovviamente. Ormai non mi piace quello che succede in Italia ma anche nel mondo da dieci, quindici anni. Credo che ci sia una sorta di involuzione culturale. Non voglio fare la parte del nostalgico ma mi sembra che le canzoni vengano confezionate con la stessa cura con cui si posta qualcosa su Instagram. Io ho sempre voluto fare musica che possa restare. Il rock non è mai stato solo intrattenimento quanto più un coinvolgimento di tipo culturale. Imagine è il corrispettivo in musica di quello che aveva fatto Picasso con Guernica.
E i Maneskin, le piacciono?
Siamo amici, ci conosciamo. Prima che esplodessero in tutto il mondo, quando capitava che ci incontravamo a un festival, un evento con altri artisti, loro ci hanno sempre manifestato la loro stima. La notte che ho visto una band di quattro ragazzi, voce chitarra basso batteria, vincere Sanremo non ho dormito. È stato epocale. Ero contentissimo per loro e lo sono ancora. Cosa dovrei avere in contrario rispetto a un gruppo italiano che ha successo in tutto il mondo? Credo anche che inevitabilmente trascineranno altri giovani a suonare.
Resteranno nel tempo?
Il rischio che restino solo un fenomeno possono risolverlo solo in un modo: scrivendo delle grandi canzoni. Per il momento ritengo che si siano creati un proprio sound, un proprio spazio, sono fichi. Possono davvero entrare nella storia del rock e non mi dispiacerebbe affatto.
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