La sentenza del Cnel
Brunetta fa un assist alla Meloni: il fantasma Cnel boccia il salario minimo
Le conclusioni del Cnel sbattono con la Cassazione: “La contrattazione collettiva in sé non basta a garantire il rispetto dell’art. 36 della Costituzione”
Politica - di David Romoli
La sentenza del Cnel, pur formalmente non ancora definitiva, non lascia margini di dubbio: il salario minimo è bocciato senza appello. Il 12 ottobre il presidente Brunetta, che da parte sua al salario minimo non è mai stato favorevole, renderà ufficiali le motivazioni del parere contrario, approvato dalla commissione Informazione con un solo no, quello della Cgil, e l’astensione della Uil.
Le motivazioni sono tre. Prima di tutto sarebbe ingiusto far dipendere la “povertà lavorativa” solo dai salari bassi: vogliamo metterci i tempi di lavoro, insomma se un precario lavora part time solo qualche mese l’anno il dato sarà o non sarà rilevante? Poi la composizione famigliare: un single se la passa solitamente meglio di chi deve campare qualche figlio. Infine l’affermazione secondo cui praticamente tutti i lavoratori italiani sono contrattualizzati: stiamo intorno al 100% quando la Ue si accontenta dell’80%. Anche le paghe, secondo lo stesso documento, sono nella media europea, attestandosi intorno ai 7.10 euro l’ora.
Qui le stime del Cnel rispondono in realtà a criteri furbetti: “Si basano sulla media del 2019: prima della pandemia, della guerra e dell’inflazione e tengono conto di tutti i contratti, non solo dei più significativi, firmati da Cgil, Cisl e Uil. E comunque vorrei chiedere a Giorgia Meloni se le pare accettabile che in Italia lavoratori prendano meno di 9 euro all’ora”, commenta Arturo Scotto, che, come capogruppo pd in commissione Lavoro, ha gestito il braccio di ferro sul salario minimo conclusosi con la sospensiva fino al 17 di questo mese.
Il passaggio sulla percentuale di contratti collettivi è centrale. Serve a supportare l’argomentazione secondo cui il salario minimo non risponderebbe alla direttiva europea sul “salario dignitoso” che, proprio stando alla direttiva, sarebbe già garantito da un alto livello di contrattazione collettiva. “È un’interpretazione capziosa. La direttiva usa sempre le formula e/o proprio per segnalare che i due strumenti possono essere adoperati separatamente ma anche in modo concorrente”, replica la responsabile Lavoro del Pd Cecilia Guerra.
Le conclusioni, del tutto prevedibili e anzi previste, a cui è arrivato il Cnel sbattono fragorosamente con la sentenza di Cassazione di due giorni fa, in base alla quale la contrattazione collettiva in sé non basta a garantire il rispetto dell’art. 36 della Costituzione, in base al quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
La Cassazione va in realtà oltre. Stabilisce infatti che il giudice deve sì basarsi nel sentenziare sul contratto collettivo ma può anche “motivatamente discostarsene” ove il contratto non risponda ai requisiti imposti dall’art. 36 della Carta. La sentenza non potrebbe essere più chiara e smentisce in radice la valutazione del Cnel, però non risolve affatto il problema. In tutta evidenza non si possono lasciare le cose solo in mano ai magistrati, altrimenti tutto verrebbe affidato alla discrezionalità del giudice. “Meloni ha lanciato la palla in tribuna e lì Brunetta la ha sgonfiata: delitto perfetto”, commenta Conte e lancia per l’8 ottobre il “Firma Day” per moltiplicare la raccolta di firme a favore della legge.
Dalla direzione del Pd Schlein accoglie l’invito: “Dall’8 ottobre abbiamo preso l’impegno di fare un grande firma day in tutto il Paese. Ci servirà per arrivare più forti in aula il 17 ottobre”. Sempre che la legge arrivi davvero in aula e non slitti per l’ennesima volta. È probabile che governo e maggioranza chiedano di tornare in commissione. In commissione, trattandosi dell’ennesimo passaggio, i tempi saranno contingentati. In ogni caso, a sessione di bilancio aperta, non si potranno per legge discutere leggi di spesa e il salario minimo comunque lo è.
La premier aveva promesso entro settembre una proposta complessiva sui salari: non ne ha fatto niente ma è probabile che qualcosa per il 17 arrivi, anche solo come alibi per forzare il ritorno in commissione. L’opposizione, il 17 ottobre, alzerà senza dubbio la voce ma le possibilità di arrivare a risultati concreti sono quasi inesistenti. Forse, a volte, le raccolte di firme e il lavoro parlamentare, senza una vera mobilitazione, non servono a tanto.