80 anni dalla razzia

Rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, 80 anni fa la razzia delle SS

Pubblichiamo brani dello sconvolgente libro di Giacomo Debenedetti che racconta minuto per minuto quella terribile giornata del 16 settembre 1943. Forse è l’unica lettura da rendere obbligatoria nelle scuole

Editoriali - di Giacomo Debenedetti - 16 Ottobre 2023

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Rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, 80 anni fa la razzia delle SS

…Entriamo ora in una casa di via Sant’Ambrogio, nel Ghetto. Potremo seguire la razzia in tutte le sue fasi. Verso le cinque la signora Laurina S. viene chiamata dalla strada. È una nipote che le grida: “Zia, zia, scendi! I tedeschi portano via tutti!”.
Questa ragazza, qualche momento prima, uscendo di casa in via della Reginella, aveva veduto portar via una intera famiglia con sei bambini, il maggiore dei quali di dieci anni. La signora S. si affaccia alla finestra. Vede ai lati del portoncino due tedeschi, armati di moschetto (o di mitra, non sa specificare). Ci si domanderà come abbia potuto la nipote gridare così dalla via, e parole tanto esplicite, alla presenza di due tedeschi (la via è angosciosamente stretta, un budello).
Ripetiamo che i tedeschi, in massima, non rastrellarono la gente per via: fuor di casa furono presi soltanto quelli che, infelici, vollero farsi prendere. Né bisogna credere che la tragedia si sia svolta in un’atmosfera di muta e trasecolata solennità: le persone seguitavano a parlare tra di loro, a gridarsi degli avvisi, delle raccomandazioni, come nella vita di tutti i giorni. La fatalità svolgeva il suo lavoro sostanzioso, senza preoccuparsi del cerimoniale, senza badare alle inezie di forma. Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore.

Dapprima la signora S. suppose, come tutti, che i tedeschi fossero venuti a portar via gli uomini per il “servizio del lavoro”. Questa idea, sparsa probabilmente ad arte, fu la rovina di molte famiglie, che non pensarono a mettere in salvo vecchi, donne e bambini. Comunque, fidando nella presunta immunità delle donne, la S. si veste alla meglio, prende carte annonarie e borsa della spesa, poi scende per cercare di capire di che si tratti. Qualche giorno prima è caduta, trascina una gamba ingessata.
Giunta per via, si avvicina ai tedeschi di sentinella, offre loro da fumare, quelli accettano. Dei due, l’uno poteva avere venticinque anni, l’altro ne dimostrava una quarantina. Come in tutte le mie prigioni c’è sempre un carceriere buono, così in questa razzia ci saranno le SS di gran cuore: questi due, per esempio. La leggenda formatasi poi nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci. “Portare via tutti ebrei…” risponde il più anziano alla donna. Costei si batte la palma sull’ingessatura: “Ma io gamba rotta… andare via con la mia famiglia… ospedale…”. “Ja, ja,” annuisce l’“austriaco”, e con la mano le fa cenno di svignarsela. Mentre aspetta la famiglia, la S. pensa di mettere a frutto la sua amicizia con i due soldati per veder di salvare qualche vicino. Chiama anche lei dalla strada: “Sterina! Sterina!” “Che c’è?” fa quella dalla finestra. “Scappa, che prendono tutti!”. “Un momento, vesto Pupetto, e vengo.”
Purtroppo vestire Pupetto le fu fatale: la signora Sterina fu presa con pupetto e con tutti i suoi. Dalla via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via Sant’Ambrogio col Portico. Com’è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni.

Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione. Pare che quell’atroce, repentina sorpresa già non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti, che erano andati con lo stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi, i roghi. Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare: ed è anche più tremendo che dover dire: “Non ce n’è” ai figli che chiedono pane.
D’altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo. Taluno bacia le proprie creature: un bacio che cerca di nascondersi ai tedeschi, un ultimo bacio tra quelle vie, quelle case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla vita. Chi scrive questo resoconto passò la mattinata del 16 ottobre in casa di una vicina. Costei si lasciò sfuggire, all’inizio dell’estate, che la razzia era preveduta: infatti un suo conoscente, impiegato all’anagrafe, le aveva confidato giorni prima che si erano dovuti ammazzare di lavoro per certi elenchi di ebrei, che bisognava approntare per i tedeschi. Di ritorno a Roma nel luglio successivo, cercammo di ripigliare il discorso, ma non ci fu verso: la vicina cadeva dalle nuvole, non si ricordava di aver mai saputa una simile notizia.

Il tempo che si era mantenuto per tutta la mattina fradicio e basso, verso le undici ebbe una breve remissione. Un poco di sole brillò sulle selci del Portico di Ottavia, dove da ore si trascinavano quei poveri piedi, quei piedi già stanchi, già dolenti prima di iniziare il viaggio. Nei Sabbati ormai lontani, quel raggio di sole attraversava le vetrate della sinagoga, andava ad accendere le canne dell’organo, che gli rispondeva nel registro più d’oro. E lo riversava, quel raggio, sui fedeli in concenti di giubilazione, in uno sfolgorare di santa allegrezza. I fanciulli cantavano: “Santo, Santo Santo, il Dio degli eserciti, della Sua gloria tutta la terra è colma.”

Ora, dal fondo della fossa in cui stanno aspettando di essere deportati, quei fanciulli non levano altro che pianto, un pianto che non fa coro, che non si innalza al cielo come il fumo dei sacrifizi; che il cielo tornato basso sembra respingere, far ricadere sulle loro spalle.
Quanti anni ancora dovranno passare, prima che quel pianto diventi il cantico dei fanciulli nella fornace? Prima che il Dio degli eserciti li ascolti, nuovamente rapiti nel celebrare la Sua gloria? La razzia si protrasse fino verso le 13. Quando fu la fine, per le vie del Ghetto non si vedeva più anima, vi regnava la desolazione della Gerusalemme di Geremia: “quomodo sedet sola civitas…”. Tutta Roma era rimasta allibita.

….Nella fila la signora S. vide anche zia Chele, una vecchia di ottant’anni mezza andata di mente: si trascinava tra gli altri, come un po’ saltellando, senza capire che cosa le facessero fare, e rispondeva con saluti e sorrisi ebeti e perfino un po’ fatui agli sguardi della gente; ma poi trasaliva d’improvviso e si spaventava, biascicando frammenti di preghiere, quando i tedeschi si rimettevano a urlare. Urlavano senza un motivo, probabilmente solo per tenere desto il terrore e vivo il senso della loro autorità, affnché non nascessero intoppi e le cose fossero sbrigate alla svelta. Passa un’altra vecchia di ottantacinque anni, sorda e malata. Passa un paralitico, portato a braccia sulla sua sedia. Una donna con un lattante in collo si slaccia la camicetta, estrae la mammella e la spreme per mostrare al soldato che non ha più latte per la creatura: ma quello le punta il mitragliatore contro il fianco perché cammini.

Un giovanotto si stacca dalla fila: ha ottenuto di andare a prendere un caffè, sotto la sorveglianza di una SS, che però non accetterà di “tenergli compagnia”. Deglutisce rumorosamente, la tazzina gli trema nelle mani, e anche le gambe gli ballano sotto. Gira gli occhi smarriti verso i tavolini, dove si è seduto a giocare a carte nelle sere che avevano ancora un indomani. Con una specie di sorriso timido e stanco, domanda al caffettiere: “Che faranno di noi?”. Queste povere parole sono tra le poche lasciateci da coloro nell’andarsene. Ci fanno sentire la voce di un essere tornato per un momento nella nostra vita, tra noi, quando a lui vivo la nostra vita ormai non apparteneva più, e già era entrato in quella nuova esistenza oscura e terribile. E ci dicono pure che cosa sia passato per la testa di quegli sciagurati nei primi momenti: una sfiduciata speranza di non aver capito bene.

Le file vengono spinte verso la goffa palazzina delle Antichità e belle arti, che sorge al gomito del Portico di Ottavia di fronte alla via Catalana, tra la chiesa di Sant’Angelo e il Teatro di Marcello. Ai piedi della palazzina si stende una breve area di scavi, ingombra di ruderi, qualche metro più bassa che la strada. Entro questa fossa venivano raccolti gli ebrei, e messi in riga ad aspettare il ritorno dei tre o quattro camion, che facevano la spola tra il Ghetto e il luogo dove era stabilita la prima tappa. Giunta con la famiglia a largo Argentina – varcato ormai il mar Rosso – la signora S. viene a sapere di un parente che per paura di quelle sentinelle alla porta, è rimasto per le scale. (Un caso purtroppo frequente; per quella paura, molti non si vollero muovere di casa e vi si fecero prendere.).

Malgrado le proteste dei suoi, la S. decide di tornare indietro a soccorrere il parente, se ancora farà in tempo. Che può parere una bravata in sovrappiù, il troppo che stroppia; ma c’è della gente, a cui le congiunture estreme danno una sovrabbondanza vitale, che li fa credere in una specie di invulnerabilità. È il caso di quegli infermieri che circolano tra le epidemie con uno scanzonato e quasi irritante disprezzo per la profilassi, e sono poi proprio quelli che se la scapolano, come se davvero il contagio su di loro non avesse presa. I due “austriaci” sono sempre alla porta. Un’occhiata basta alla S. per sincerarsi che il tacito patto di protezione vige sempre ancora.

Dal vano delle scale chiama il parente. “ Enrico!”. Ma in questo momento sette tedeschi sopraggiungono: hanno sentito quel richiamo e, per quanto non lo capiscano, a buon conto il loro capo appioppa alla S. uno schiaffone, che la manda lunga e distesa attraverso l’andito. Poi con incomprensibili parole tedesche e fin troppo chiare minacce col calcio del mitragliatore, la costringe a rialzarsi da sola. Due uomini si mettono davanti a lei, tre alle sue spalle, e le tocca di salire. Sul pianerottolo, le porte dei tre appartamenti sono chiuse, sbarrate (una è quella dell’appartamento di S., ormai deserto).

I tedeschi consultarono un elenco dattilografato. Disgraziatamente, due delle porte si erano concessa l’assurda civetteria di una targa sul battente. E i nomi rispondevano a quelli dell’elenco. I tedeschi bussarono; poi non avendo ricevuto risposta, sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola. L’allarme era stato dato da forse un’ora: ma nella concitazione di consultarsi, di fuggire, di salvare un po’ di roba, nella ridda delle decisioni impotenti e contraddittorie, quasi nessuno aveva trovato il tempo di vestirsi. I più erano ancora in camicia, con un vecchio pastrano o una frusta gabardine infilati alla meglio.

Il caposquadra si avanza verso di loro. Ha in mano una specie di cartolina scritta a macchina, di cui legge il testo in tedesco. Quelli non capiscono altro che il tono perentorio di minaccia. Si sciolgono i pianti delle donne e dei bambini. La S. ha avuto il tempo di sbirciare che, sull’elenco dei nomi, il suo non c’è. Questo le dà coraggio: come a vendicarsi dello schiaffo, strappa di mano al tedesco la cartolina. Il testo è bilingue. È lei che lo legge ad alta voce ai vicini:
1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.
2. Bisogna portare con sé:
a) viveri per almeno otto giorni;
b) tessere annonarie;
c) carta d’identità;
d) bicchieri.
3. Si può portare via:
a) valigetta con effetti e biancheria personali, coperte ecc.;
b) denari e gioielli.
4. Chiudere a chiave l’appartamento. Prendere con sé la chiave.
5. Ammalati – anche casi gravissimi – non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.

Venti minuti: neppure il tempo per lamentarsi. Meno di quanto occorra per fare fagotto. I bicchieri belli è meglio lasciarli a casa. E le valigette, dove trovarne una per ciascuno? I bambini ne vogliono una tutta per loro. Non seccate! Bisogna che i tedeschi non vedano dove stavano nascosti i manhood. Gioielli non ce n’è più, tutti da un nharèl. Le parole necessarie bisogna dirsele in ebraico, come si sa e si può – in quel gergo che pare un furbesco e ha sempre fatto sospettare che gli ebrei complottino – come si fa a parlare con quei due soldati entrati in casa a sorvegliare i preparativi? I bambini si aggrappano alle gonne, non lasciano bene avere. Alcuno si busca un ceffone. Gli ebrei, nei rapporti coi figli sono pronti di mano….

I soldati rimasti sul pianerottolo si avvicinano alla S. e le domandano se sia parente con quelle famiglie. No, non è parente. Se sia Juda. Non è Juda. Ne dia le prove: la signora estrae la chiave, apre il proprio appartamento per dimostrare che quella è casa sua, che lei non abita con gli altri, che non ha niente di comune con loro. La cacciano dentro casa, intimandole di chiudere la porta. I venti minuti concessi ai vicini stanno quasi per spirare. Alle sollecitazioni dei tedeschi, ricominciano le grida, le invocazioni: nella confusione dei preparativi, si era quasi dimenticato che erano i preparativi per essere portati via. La S. non regge più, esce sul pianerottolo. I tedeschi fanno per ributtarla dentro; ma lei torna a mostrare la gamba ingessata, deve andare all’ospedale. Alcuno le accenna che è libera, che fili alla lesta.

In questo momento, vedendola avviarsi per le scale, quattro bambini scappano dagli altri due appartamenti, le si attaccano alle braccia, alle vesti: “Aiutaci, Laurina! Laurina, salvaci!” Una di quei quattro è la bambina Ester P., che aveva allora dodici anni. Racconta che quella notte era venuta a dormire da zia, perché all’indomani mattina presto doveva andare “a fare la fila dell’erba”, e di uscire sola al buio lei aveva paura. Appena con zia furono fuori di casa, videro tutti gli angoli di strada piantonati dai tedeschi. Rientrarono subito: zia pensava (anche lei) che i tedeschi fossero venuti per prendere gli uomini, perciò voleva dare i soldi al marito, che scappasse.

Avessero tirato di lungo per la loro strada, almeno loro due si sarebbero salvate: invece rimasero incastrate, perché di lì a poco, erano sopraggiunti i sette tedeschi. Quando capì di essere presa, la bambina ebbe soprattutto paura che suo padre, non vedendola tornare, si arrabbiasse. Anche zia, correndo tra armadio e cassone per far fagotto, le diceva: “Scappa, torna a casa, se no poi papà mi strilla.” Questa idea della strillata e soprattutto quel “poi” dicono molte cose. Loro continuavano a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima. (Eppure il biglietto parlava chiaro.)

Senza dubbio ci fu gente più consapevole, che subito si rese conto di quello che stava capitando. Ma a quelli di “piazza Giudìa”, a una gran parte almeno, successe come quando portano un parente dal medico, che fa loro una diagnosi senza speranza. Per parecchio tempo ripetono il nome di quella malattia, ci fanno i commenti, quasi ci prendono confidenza, come fosse il nome di una delle tante malattie che già conoscono, che sono già state in casa. Solo più tardi capiscono che cosa ci sia dentro quel nome. La S. strinse a sé i bambini, disse che erano suoi. I tedeschi lasciarono correre. Appena in istrada, i piccoli se la squagliano. La signora S. fa pochi passi, e poi sviene. La soccorrono alcuni “ariani”, che la portano al caffè di ponte Garibaldi.

CHI È GIACOMO DEBENEDETTIGiacomo Debenedetti è uno dei maggiori critici letterari del novecento. E’ stato anche uno scrittore e un professore universitario. Piemontese, nato nel 1901 morì nel 1967. Ha scritto molto in vita sua ma quel piccolo libbriccino intitolato 16 ottobre 1943 è un capolavoro assoluto. Una cronaca secca e travolgente della giornata nella quale fu rastrellato il ghetto di Roma e furono deportati più di 1000 ebrei, destinati ai lager e alla morte. Pubblichiamo qui alcuni brevi brani di quel suo lavoro, edito dalla Nave di Teseo con le prefazioni di Natalia Ginzburg e Alberto Moravia.

16 Ottobre 2023

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