Il conflitto in Medioriente
Appello di Judith Butler: “Apartheid razziale, colonialismo: usiamo le parole esatte in Israele”
La filosofa statunitense: «C’è chi usa la storia della violenza israeliana nella regione per scagionare Hamas, ma usa una forma fallace di ragionamento morale per raggiungere questo obiettivo»
Editoriali - di Angela Nocioni
London Reviewof books, la settimana scorsa. È lì che Judith Butler, con poche righe scritte, ha sciolto il vincolo che incatena e impasta tra loro in vaniloquio tutte le parole pronunciate dopo gli attacchi di Hamas a civili il 7 ottobre nell’impossibilità di ciascuno di sottrarsi alla iscrizione d’ufficio a uno dei due macabri spalti sul Medio oriente affollati da tifoserie avverse. La filosofa statunitense ha evitato il problema dicendo di non voler rinunciare alla libertà di nominare e descrivere ogni forma di violenza, inclusa quella di Tel Aviv e di opporsi a essa.
L’autrice, che ha studiato negli ultimi anni i tanti tipi di violenza esistenti nelle società occidentali, raccomanda “se si vuole documentare la violenza, il che significa intendere i massicci bombardamenti e le uccisioni in Israele da parte di Hamas come parte di questa storia, si può essere accusati di relativizzare o di contestualizzare”. Scrive Judith Butler: “Dobbiamo condannare o approvare, lo capisco: ma è tutto ciò che ci viene richiesto, dal punto di vista etico? Io condanno senza riserve la violenza commessa da Hamas. È stato un massacro terrificante e rivoltante. Questa è stata la mia reazione principale, e tale resta. Ma ci sono anche altre reazioni. La gente vuole subito sapere “da che parte stai”. Chiaramente l’unica risposta possibile a tali uccisioni è una condanna inequivocabile. Ma perché, a volte, pensiamo che chiedersi se stiamo usando il linguaggio giusto o se abbiamo una buona comprensione della situazione storica sia un ostacolo a una forte condanna morale? È davvero relativistico chiedersi che cosa stiamo condannando esattamente, quale dovrebbe essere la portata di tale condanna e come descrivere al meglio la formazione politica, o le formazioni, a cui ci opponiamo? Sarebbe strano opporsi a qualcosa senza capirlo o senza descriverlo bene. E sarebbe ancora più strano credere che la condanna richieda il rifiuto di capire, per paura che la conoscenza possa avere solo una funzione relativizzante e minare la nostra capacità di giudizio”.
Sul senso stesso della condanna Judith Butler si chiede: “Quando e dove inizia e finisce la nostra condanna? Non abbiamo forse bisogno di una valutazione critica e informata della situazione per accompagnare la condanna morale e politica, senza temere che la conoscenza ci trasformi, agli occhi degli altri, in persone immorali complici di crimini orrendi?”. Ammonisce lei: “C’è chi usa la storia della violenza israeliana nella regione per scagionare Hamas, ma usa una forma fallace di ragionamento morale per raggiungere questo obiettivo. Sia chiaro, la violenza israeliana contro i palestinesi è schiacciante: bombardamenti incessanti, uccisioni di persone di ogni età nelle loro case e nelle strade, torture in prigione, tecniche di assedio per fame a Gaza, l’esproprio delle case e delle terre. E questa violenza, nelle sue molteplici forme, è perpetrata contro un popolo che è soggetto alle regole dell’apartheid, al dominio coloniale e all’apolidia.
Tuttavia, quando il “Comitato di solidarietà con la Palestina” di Harvard rilascia una dichiarazione in cui sostiene che “il regime di apartheid è l’unico da biasimare” per gli attacchi mortali di Hamas contro obiettivi israeliani, commette un errore. È sbagliato attribuire la responsabilità in questo modo, e nulla dovrebbe esonerare Hamas dalla responsabilità per le orribili uccisioni che ha perpetrato. Allo stesso tempo, questo Comitato e i suoi membri non meritano di essere inseriti in qualche “lista nera” o minacciati. Hanno sicuramente ragione a sottolineare la storia della violenza nella regione: “Dalle confische sistematiche di terre agli attacchi aerei di routine, dalle detenzioni arbitrarie ai posti di blocco militari, dalle separazioni forzate delle famiglie alle uccisioni mirate, i palestinesi sono stati costretti a vivere in uno stato di morte, sia lenta che subitanea”.
Scrive Butler: “Questa è una descrizione accurata della realtà e va affermata, ma ciò non significa che la violenza di Hamas sia solo violenza israeliana sotto un altro nome. È vero che dovremmo capire perché gruppi come Hamas si siano rafforzati alla luce delle promesse non mantenute degli Accordi di Oslo e dello “stato di morte, lenta e subitanea” che descrive l’esistenza di molti palestinesi sotto l’occupazione israeliana, sia che si tratti della costante sorveglianza e della minaccia di detenzione amministrativa senza un giusto processo, sia che si tratti dell’intensificarsi dell’assedio che nega alla popolazione di Gaza medicine, cibo e acqua. Tuttavia, non si ottiene una “giustificazione” morale o politica per le azioni di Hamas facendo riferimento alla sua storia. Se ci viene chiesto di intendere la violenza palestinese come una continuazione della violenza israeliana, come ci chiede il “Comitato di Solidarietà con la Palestina” di Harvard, allora c’è una sola e unica fonte di colpevolezza morale, così che nemmeno i palestinesi possono riconoscere le loro azioni violente come proprie. Non è questo il modo di riconoscere l’autonomia di azione palestinese”.
“La necessità di separare la comprensione della violenza pervasiva e implacabile dello Stato israeliano da qualsiasi “giustificazione” della violenza è cruciale se vogliamo considerare quali altri modi ci sono per abbandonare il dominio coloniale, fermare gli arresti arbitrari e le torture nelle prigioni israeliane e porre fine all’assedio di Gaza, dove l’acqua e il cibo sono razionati dallo Stato-nazione che controlla i suoi confini. In altre parole: la domanda intorno a quale mondo sia ancora possibile per tutti gli abitanti di quella regione dipende dai modi per porre fine al dominio coloniale. Hamas ha una risposta terrificante e spaventosa a questa domanda, ma ne sono possibili molte altre.
Tuttavia, se ci è vietato fare riferimento all’”occupazione” (secondo il nuovo Denkverbot contemporaneo), se non possiamo nemmeno discutere se il dominio militare israeliano della regione sia apartheid razziale o colonialismo, allora non abbiamo alcuna speranza di comprendere il passato, il presente o il futuro. Molte persone che guardano la carneficina attraverso i media si sentono senza speranza. Ma uno dei motivi per cui sono senza speranza è proprio perché stanno guardando la realtà attraverso i media, vivendo nel mondo sensazionale e transitorio dell’indignazione morale senza speranza. Una morale politica diversa richiede tempo, un modo paziente e coraggioso di imparare e di nominare la realtà, in modo da poter accompagnare la condanna morale con una visione morale”.
Rivendica poi chiaramente Judith Butler: “Mi oppongo alla violenza inflitta da Hamas e non ho alibi da offrirle. Quando lo dico, esprimo chiaramente una posizione morale e politica. Non cado in equivoco quando rifletto su ciò che questa condanna presuppone e implica. Chiunque si unisca a me in questa condanna potrebbe chiedersi se la condanna morale debba basarsi su una certa comprensione di ciò a cui ci si oppone. Si potrebbe dire: no, non ho bisogno di sapere nulla della Palestina o di Hamas per sapere che ciò che hanno fatto è sbagliato e per condannarlo. E se ci si ferma lì, affidandosi alle attuali rappresentazioni mediatiche, senza mai chiedersi se siano effettivamente giuste e utili, se permettano di raccontare la storia, allora si accetta una certa ignoranza e ci si fida del quadro che viene presentato. Dopo tutto, siamo tutti impegnati e non possiamo essere tutti storici o sociologi. È un modo possibile di pensare e di vivere, e le persone con buone intenzioni vivono in questo modo. Ma a quale costo?
E se la nostra morale e la nostra politica non si esaurissero nell’atto di condanna? Se insistessimo nel chiederci quale forma di vita libererebbe la regione da una violenza come questa? E se, oltre a condannare i crimini più efferati, volessimo creare un futuro in cui la violenza di questo tipo abbia fine? È un’aspirazione normativa che va oltre la condanna momentanea. Per realizzarla, dobbiamo conoscere la storia che ha portato alla situazione attuale: la crescita di Hamas come gruppo militante nella devastazione degli anni dopo gli Accordi di Oslo, quando a Gaza le promesse di autogoverno non sono mai state mantenute; la formazione di altri gruppi di palestinesi con tattiche e obiettivi diversi; la storia del popolo palestinese e le sue aspirazioni alla libertà e al diritto all’autodeterminazione politica, alla liberazione dal dominio coloniale e dalla violenza militare e carceraria dilagante. Allora potremmo partecipare alla lotta per una Palestina libera, in cui Hamas verrebbe sciolto o sostituito da gruppi con aspirazioni di convivenza nonviolenta” auspica la filosofa americana.