Il ricordo dello scrittore
Chi era Vasco Pratolini, un maestro finito nell’oblio
Intimistico ma allo stesso tempo capace di leggere tra le pieghe del Novecento, lirico e realista. Da “Cronaca familiare” a “Metello” ha raccontato l’Italia degli umili e dei semplici
Cultura - di Filippo La Porta
Do you remember Vasco Pratolini, nato un 18 ottobre di tanti anni fa (1913)? A ricordarci l’anniversario un libretto utile, simpatetico e scritto con mano felice da Valerio Aiolli: A Firenze con Vasco Pratolini. Baci, spari e altre forme di amore (Perrone). Basterebbe questa notazione, fondamentale per introdurci allo scrittore fiorentino: “I libri di Pratolini sono pieni di baci. Baci tra ragazzini e ragazzine, tra uomini e donne, tra donne e donne, tra uomini e uomini…non sono mai baci distratti, ciascuno di essi è una porta che conduce a un altrove”. Anche seguendo qui e là Aiolli proviamo a tracciare un veloce ritratto dello scrittore.
Pratolini non aveva bisogno di andare verso il popolo poiché dal popolo proveniva. Figlio di un cameriere e di una sarta (presto orfano di madre), ha fatto i mille mestieri – garzone di bottega, venditore di caramelle nei cinema, fattorino d’albergo, tipografo…- , prima di collaborare a qualche rivista letteraria, prima il Bargello poi Campo di Marte da lui fondata. Partecipò alla Resistenza dopo una giovanile adesione al “fascismo di sinistra” (insieme a Vittorini e Bilenchi). Considerato un narratore imprescindibile del dopoguerra e della grande stagione neorealista, ispiratore con i suoi romanzi di una quantità di film (lui stesso sceneggiatore, con Rossellini, Blasetti. Lizzani, etc.), appassionato di sport popolari (pubblicò un reportage sul Giro d’Italia), autore di radiodrammi, lo scrittore “della simpatia umana” (Pampaloni) è via via sprofondato in un ingiusto oblio, per motivi diversi.
Lui stesso vi ha contribuito con l’afasia degli ultimi due decenni (morì nel 1991). Ma soprattutto è scomparso il mondo che raccontava: a quel “popolo” – con la sua identità specifica, le sue spinte ideali, le sue passioni quotidiane – si è sostituita la “massa”, amorfa e passiva. Eppure non è uno scrittore anacronistico poiché in letteratura, al contrario che nelle scienze, niente è mai superato definitivamente: non vi è un progresso unilineare. E anzi, dato che in un romanzo si può inventare tutto tranne la psicologia, come diceva Tolstoj – uno degli scrittori a lui più cari (una volta lo andai a trovare: il suo cane si chiamava Pierre, per omaggiare il Bezuchov di Guerra e pace) – è proprio sulle sue finissime analisi psicologiche, sulla enciclopedia delle emozioni della sua “commedia umana” che possiamo ritrovare la attualità di Pratolini.
L’opera pratoliniana oscilla tra ruvido realismo, molto toscano (si pensi a Tozzi) e una vena lirica, elegiaco-sentimentale, su cui volle infierire il ferrigno Asor Rosa di Scrittori e popolo (1965). Ora, se a tratti possiamo trovare limiti di bozzettismo e di Arcadia, l’impressione è che lo scrittore resti tolstojanamente fedele a quella storia minore dei suoi personaggi – più reale della grande Storia – , alla piccola vita della piccola gente del quartiere, ai baci rubati agli angoli delle strade. Protagonista dei romanzi è la luce. Pratolini, come osserva giustamente Aiolli, richiama subito il suo amico Ottone Rosai, grande pittore fiorentino, come lui raffinato e popolare, ritrattista degli umili, delle osterie e di certi scorci di Firenze. Esordisce con i racconti autobiografici del Tappeto verde (1941), poi le grandi rappresentazioni corali: Cronaca familiare (1947), Cronache di poveri amanti (1947) e Le Ragazze di San Frediano (1952). Raggiunge il successo con Metello (1955), su un giovane muratore fiorentino tra gli scioperi degli edili dei primi del ‘900: fu un caso letterario e di politica culturale, esaltato da Carlo Salinari – il critico più autorevole del Pci – in quanto passaggio dal neorealismo al realismo, e superamento dell’odiato decadentismo.
Con Metello inaugura una ambiziosa “Storia italiana” che continuerà ne Lo scialo, 1960, ricostruzione “polifonica, dinamica, acutissima” (Aiolli) degli inizi del fascismo attraverso un ritratto acuminato della borghesia, e infine Allegoria e derisione, 1966. Non sembrerebbe uno scrittore di irresistibile appeal per un ventenne di oggi, ma se apriamo uno qualsiasi dei suoi romanzi è difficile non restare colpiti dalla naturalezza del narrare, dall’accento di verità dei dialoghi, dalla serissima leggerezza con cui ritrae la spuma dell’esistenza. Mi soffermo sul romanzo più bello di Pratolini, anche se non il più noto: Un eroe del nostro tempo (1947), dove mette in scena un giovane fascista, il 16enne Sandrino negli anni del dopoguerra, che vuole essere fedele alla memoria del padre morto in Africa.
Un ragazzo vitale e irruento, di innocente brutalità, primitivo nelle sue reazioni e imbevuto di slogan repubblichini. In conflitto col mondo, intende rifarsi contro le donne (umilia e picchia la vedova con cui ha una storia) e contro la società (entra in una banda di criminali). Nella parte finale incontra una coetanea con la quale sente un legame di amore, fatto di reciproca fiducia e aspirazione alla purezza. Ma prevale la sua “ombra”, una oscura vocazione autodistruttiva. Come vede Pratolini il fascismo? Sandrino è un ragazzino psichicamente disturbato (con un bisogno di risarcimento), ma soprattutto confuso.
Lei gli dice: “sembra che le parole ti escano di bocca senza che tu le accompagni col pensiero”. Rappresentare il fascismo come assenza di pensiero e devianza psicopatologica può sembrare riduttivo. Eppure, pensando agli stessi scrittori che a un certo punto diventarono fascisti- da Céline a Pound – potremmo concludere che la loro adesione al fascismo corrisponde a un obnubilamento. Per Hannah Arendt l’integerrimo funzionario nazi Eichmann si spiegava con la interruzione del pensiero, del dialogo con se stessi.
Il libro di Aiolli è una guida pratoliniana perfino minuziosa a strade e piazze di Firenze, ed è anche un saggio critico originale, ad esempio la pagina sui memorabili personaggi femminili pratoliniani. A un certo punto leggiamo: “Non è possibile parlare di Pratolini senza parlare di politica”. L’impegno dello scrittore sfuma in una integrità anzitutto morale, come quando rifiuta la offerta di collaborazione al Corriere nel 1957. Ma forse quello dell’engagement è il principale equivoco a cui oggi potremmo legare la figura di Pratolini. Sapeva infatti che l’unico impegno autentico dello scrittore è prendersi cura delle parole. In un’intervista volle paragonare la letteratura a “fare degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo”. Dunque: scrivere bene sulla “pelle dell’uomo”, sulla superficie frastagliata della sua vita emotiva e intellettuale.