L'ex Presidente della Camera

Intervista a Laura Boldrini: “Gaza va salvata, il raid di Hamas crimine orribile ma lo è anche la distruzione totale”

«Israele deve debellare i miliziani di Hamas che devono rispondere dei loro orrendi crimini. La risposta non può essere, però, colpire civili palestinesi, donne e bambini che non hanno alcuna responsabilità in questi atti efferati. Lo stop alla colonizzazione è presupposto della pace»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 18 Ottobre 2023

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Intervista a Laura Boldrini: “Gaza va salvata, il raid di Hamas crimine orribile ma lo è anche la distruzione totale”

La priorità oggi è evitare il disastro umanitario nella Striscia di Gaza. A sostenerlo è Laura Boldrini, già presidente della Camera e oggi presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo.

La guerra di Gaza. Orrore e morte. E il mondo sta a guardare.
Quanto è accaduto il 7 ottobre scorso con l’attacco indiscriminato a giovani israeliani che stavano divertendosi a un rave, insieme all’avere preso in ostaggio circa 200 persone, è qualcosa di atroce e da condannare senza riserve. Israele deve debellare i miliziani di Hamas che devono rispondere dei loro orrendi crimini. La risposta non può essere, però, colpire civili palestinesi, donne e bambini che non hanno alcuna responsabilità in questi atti efferati. Purtroppo contiamo già più di 2800 morti palestinesi, di cui circa 1000 sono bambini, oltre ai 1000 dispersi sotto le macerie e 10850 feriti. Un bilancio pesantissimo, soprattutto se pensiamo che l’intera popolazione di Gaza è pari a 2 milioni e 200mila di persone. Bisogna dire con chiarezza che non ci può essere reciprocità con il terrorismo. Uno Stato di diritto non può rispondere con lo stesso metodo, uccidendo civili inermi. È necessario fare di tutto per fermare la carneficina e per impedire che carri armati e bulldozer israeliani entrino nella striscia di Gaza per compiere un atto di distruzione totale che, lo ricordo, nel diritto internazionale è considerato un crimine di guerra. Tutti gli attori principali devono impegnarsi il più possibile per evitarlo e per liberare gli ostaggi, tutti gli ostaggi, per i quali siamo molto preoccupati. In altri scenari abbiamo già visto cos’è la distruzione totale, cioè la punizione collettiva: a Grozny, in Cecenia, per mano di Putin e ad Aleppo, in Siria, per mano di Assad. Tutto il mondo ha condannato quelle azioni. Non si deve andare in quella direzione. A ottobre del 2022 la presidente Von Der Leyen, commentando l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, scrisse in un tweet che gli attacchi contro le infrastrutture civili, specialmente l’elettricità, sono crimini di guerra e togliere a uomini, donne e bambini acqua, elettricità e riscaldamento sono atti di puro terrore. È vero. Ed è vero sempre, non in modo selettivo.

Cosa significa per Lei essere oggi vera amica d’Israele?
Essere amici di Israele significa sostenere il suo diritto di esistere e vivere in pace e in sicurezza. E credo che l’accanimento indiscriminato contro la popolazione civile di Gaza vada nella direzione esattamente opposta perché non può che rafforzare Hamas che, invece, va sradicata. Israele ha l’expertise tecnica e strategica per compiere azioni mirate: lo abbiamo visto molte volte in passato. Non farlo anche adesso sarebbe un errore che può portare a un allargamento del conflitto con il coinvolgimento di altri paesi, in primis il Libano con Hezbollah, l’Iran, ma anche il Qatar e perfino la Russia. È uno scenario che va assolutamente evitato.

Ed esserlo del popolo palestinese?
Vuol dire lavorare per dare a quel popolo una rappresentanza democratica, influente e solida, sicuramente diversa da Hamas, e più autorevole dell’Anp. Significa affermare la legalità internazionale e impedire le occupazioni illegali di Israele in Cisgiordania. I palestinesi, come gli israeliani, hanno diritto di vivere in pace e sicurezza nel loro paese, un paese che fino a oggi, però, è stato negato. Bisogna, necessariamente, tornare a lavorare per l’unica soluzione possibile: due popoli e due stati.

Lei ha avuto modo, tra i pochi parlamentari italiani, di visitare Gaza e la Cisgiordania, oltre che Israele. Quali sensazioni ha riportato con sé?
Ho visitato Gaza da presidente della Camera perché volevo avere il quadro completo della situazione israelo-palestinese e Gaza era una tappa fondamentale. Nel mio viaggio, ho incontrato i rappresentanti dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i profughi palestinesi), ho visitato le loro scuole e anche una per i bambini beduini finanziata dalla cooperazione italiana. In questo modo ho conosciuto l’impegno delle tante associazioni e Ong italiane che lavorano in Cisgiordania e a Gaza. Le operatrici e gli operatori mi hanno illustrato le condizioni dei 2 milioni e 200mila persone che abitano in una vera e propria prigione a cielo aperto quale è Gaza. Una striscia di terra lunga 40 chilometri dalla quale non si può entrare né uscire senza il permesso dei militari israeliani, in cui tutto è controllato dall’esercito di Tel Aviv che è forza occupante. Ho visto situazioni di esasperazione, precarietà e resilienza: un’altissima densità abitativa, una rete fognaria inesistente, nessuna possibilità di sviluppo né, di conseguenza, di lavoro. Le persone sono costrette a uscire dalla Striscia per andare a lavorare fuori, affrontando quotidianamente controlli su controlli: un’esistenza segnata dalla privazione e dall’umiliazione. L’ultima volta, un anno fa sono andata in Cisgiordania, invitata da un gruppo di Ong israeliane. Tra queste Breaking the Silence, composta da ex membri dell’esercito d’Israele, che hanno svolto attività proprio in Cisgiordania. Dall’esperienza, vissuta in prima persona, hanno capito che l’occupazione di quelle terre è la causa principale dell’insicurezza, prima di tutto di Israele. Si sono prefissi l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, sia israeliana sia internazionale, per far capire quanto sia ingiusta e insostenibile l’occupazione della Cisgiordania, quanto sia causa di risentimento nei confronti di Israele e quanto sia necessario rimuoverla perché è in quel risentimento che si radica l’estremismo, impedendo ogni dialogo.

Si ripete: la pace passa per una soluzione a “due Stati”. Ma cosa si è fatto nei trent’anni successivi agli accordi di Oslo-Washington (settembre 1993) per rendere davvero praticabile questa prospettiva?
L’accordo del ‘93 sembrava l’inizio di una nuova era di pace e come tale venne riconosciuto dalla comunità internazionale. Il mondo visse quel momento come un passo fondamentale: una svolta decisiva. Nel 1994 a Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat, allora rispettivamente primo ministro e presidente di Israele e leader dell’Anp, fu assegnato il premio Nobel per la Pace, proprio in virtù della firma di quell’accordo. Una svolta nella crisi in Medioriente. Ma nel ‘95 Rabin venne assassinato da un israeliano, un fanatico religioso di estrema destra che non credeva negli accordi. Le ultime parole del premier israeliano, prima del colpo fatale, furono: “La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. La sua morte fu uno shock e un colpo al processo di pace. Da allora le cose sono molto cambiate. Basti pensare che nel governo di Netanyahu c’è un ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, che viene dall’estrema destra e non ha mai nascosto le proprie simpatie per l’assassino di Rabin. Un uomo incriminato 53 volte e, nel 2007, condannato per istigazione al razzismo. Basterebbe questo per farci riflettere. Non è un caso se una larghissima fetta del popolo israeliano ha contestato per mesi il governo in carica in cui siedono anche ministri come Bezalel Smotrich secondo cui “i palestinesi non esistono”. Dall’altra parte c’è un’Anp depotenziata e poco autorevole, che non indice elezioni da anni ed è incalzata da Hamas, organizzazione terroristica che ha nello statuto l’eliminazione di Israele. Resto convinta che, nonostante questo difficilissimo scenario, la formula “due popoli e due stati” rimanga l’unica possibile. Ma è evidente che, perché diventi realtà, serve la volontà politica e una mediazione internazionale credibile e fermamente intenzionata a raggiungere questo obiettivo. Il presupposto fondamentale è che si ponga fine alla colonizzazione della Cisgiordania, come previsto da numerose risoluzioni Onu. Senza questo passaggio, “due popoli e due stati” rimane una formula vuota e priva di significato. Le colonie, fortemente tutelate da Netanyahu, nel corso degli anni hanno frammentato la Cisgiordania, e quello che era un unico territorio ora non lo è più. Non può esistere uno stato senza continuità territoriale.

In Italia l’informazione mette l’elmetto. Stai da una parte o dall’altra.
Sta accadendo quello che abbiamo già visto anche con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ridurre tutto a uno scontro tra tifoserie, senza permettere di argomentare per comprendere le cause e le vie di uscita, è un limite enorme. In Israele c’è un dibattito molto vivo e capace di evidenziare anche le responsabilità del governo di Tel Aviv. I quotidiani progressisti, in particolare Haaretz, stanno muovendo critiche durissime a Netanyahu chiedendone le dimissioni e individuando in lui il primo responsabile di quanto successo. Questa articolazione del dibattito che c’è in Israele a maggior ragione dovrebbe esserci in Italia e nei paesi chiamati a intervenire perché si fermi la guerra. In una tale, tragica situazione, la politica non si può limitare a commentare i fatti di cronaca: vanno indagate le ragioni, i contesti, gli scenari che hanno portato all’ennesima guerra e come uscirne. Questo deve fare la politica se vuole evitare che la situazione precipiti e il teatro del conflitto si allarghi a dismisura. In molti, come me, non sono disposti a rinunciare all’analisi né a cedere alla legge di chi urla più forte o di chi svilisce e assale l’interlocutore invece di argomentare le proprie posizioni. Sia ben chiaro: questi signori non ci metteranno mai a tacere.

18 Ottobre 2023

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