La strategia d'uscita
Disertare è la cosa giusta
Abbracciare la guerra non porta che altra guerra. Non è velleitarismo, è politica. Ce lo dimostra il consigliere di Biden, Josh Paul. Che si è dimesso perché non più disposto a dare “supporto cieco” a una sola parte
Editoriali - di Mario Marazziti
La guerra è una bestia affamata. Che piano piano, o presto presto, prova a inghiottire anche le ragioni degli aggrediti. Anche se esistono spiegazioni strategiche o geo-politiche, una catena di torti subiti nell’indifferenza e alla necessità di esistere, non c’è giustificazione alle stragi di più di mille civili israeliani, al rapimento di 200 persone, famiglie, alle esecuzioni di bambini, esposti per diffondere terrore e reclamare un ruolo politico internazionale, per creare reazioni, innescare la rappresaglia, la più sproporzionata possibile, quella che dovrebbe costringere il mondo all’allargamento della crisi.
È una guerra che Hamas ha scatenato usando come moneta migliaia, centinaia di migliaia, due milioni di civili palestinesi, ostaggi. “Liberi di scappare” non si sa dove, senza niente, lasciando tutto, senza acqua, luce, mangiare che fra uno o due giorni non ci sarà più. E intrappolando il peggiore governo della storia di Israele, quello guidato da Benjamin Netanyahu, che sta provando da 38 settimane a trasformare Israele da democrazia in stato religioso pur di supportare sé stesso nella più difficile delle scelte: la trappola di Gaza, dell’invasione via terra, di crimini contro l’umanità perché comunque contro i civili anche semplicemente sigillando con l’assedio un popolo di prigionieri e di ostaggi presi in mezzo, tra la guerra di Hamas e quella di Israele, e senza via di fuga.
È così che non vince nessuno e vince la guerra. Che si sta già mangiando le buone ragioni degli israeliani di non essere in pericolo, perché non vale l’equazione: per ogni israeliano morto dieci, cento palestinesi. Questo non dà sicurezza, crea solo l’insicurezza infinita. La soluzione militare, anche dentro una guerra, non contiene mai la soluzione. La soluzione deve contenere aggrediti e aggressori, sofferenti e meno sofferenti, tutti, in questo caso, tutti e due. E questo contiene la parola “pace” prima dell’ipotizzata distruzione dell’avversario. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, tranne pochi folli, non c’è un popolo e un governo al mondo, uno di noi, che non sentisse quell’attacco anche un po’ a sé stesso: non perché era un attacco “al nostro stile di vita”, ma perché ignobile, fatto contro innocenti, di tante nazionalità, cristiani, musulmani, di nessuna religione, ricchi, meno ricchi, poveri.
Era terrorismo a un livello raffinato. Che usava i media per parlare al proprio mondo e attirare l’attenzione del mondo musulmano a sé attraendo con la forza di distruzione. E per far rimbalzare l’orrore e la paura a livello planetario, dove non sapevano, non potevano arrivare. Occorreva rispondere. Era giusto farlo, senza paura. Vanno scelti i mezzi. Ma non si combattono le zanzare-tigre con i bazooka. È stata decisa la guerra totale, invece dell’unità mondiale dell’intelligence. La seconda guerra del Golfo, dal 2003 al 2011, ha portato a spazzare via Saddam Hussein, alla sua cattura, alla fine del regime baathista, all’occupazione americana, fino all’Iraq di oggi, controllato dagli sciiti, filoiraniani, dopo venti anni in cui è esplosa la guerra infinita di Siria, è nato l’Isis: senza neanche una idea del “dopo” Saddam, la cui rimozione era stata evitata da George Bush padre.
Israele, nel suo diritto di rispondere, rafforzato da una storia di sofferenze che ne fanno un popolo unico nella storia, non ha il diritto di trascinare il mondo in un’altra spirale senza ritorno. La guerra sta aspettando di mangiarsi anche i suoi crediti con la storia. Spazzare via una intera generazione di giovani e ragazzini palestinesi, più di metà della popolazione, a Gaza non sarà mai una vittoria, ma solo un generatore di rancore e una vergogna. Biden è andato a Tel Aviv per dire che gli Usa sono al fianco di Israele, ma che Israele non può essere il carnefice di una popolazione, perché sarebbe imperdonabile. Mentre volava, il direttore relazioni istituzionali e dei rapporti col Congresso per gli affari Politico-Militari del Dipartimento di Stato, Josh Paul, che era lì da 11 anni, si è dimesso per non essere parte di un “supporto cieco” per una parte, per decisioni politiche “di breve visione, distruttive, ingiuste, e contraddittorie con i valori che pubblicamente noi sposiamo”.
“Temo” – ha continuato – “che ripetiamo gli stessi errori che abbiamo fatto negli ultimi decenni (e c’è in mezzo anche l’Afghanistan, retto dai talebani, sostenuti inizialmente dagli Usa contro gli invasori russi, e poi diventati, in vent’anni, il regime dei talebani, sconfitto e poi di nuovo vincente, dopo 3000 miliardi di dollari in spese militari e civili, dirette e indirette): e io non voglio più fare parte di questo”. Le parole sono sue, sull’Huffington Post e sulla prima pagina del New York Times. Paul, sottolinea come in un territorio dove una popolazione di due milioni di persone senza cure mediche, elettricità, acqua e cibo, le leggi federali vieterebbero di metter armi nelle mani dei violatori di questi diritti umani. E per questo occorrerebbe non dare carta bianca nelle mani di chi ha avviato la reazione agli attacchi terroristici. Nell’interesse di chi ha subito l’attacco.
“La sicurezza a ogni costo, incluso il costo della popolazione civile palestinese, alla fine non porta alla sicurezza”. Spazzare via senza un piano per il dopo rischia di essere un doppio boomerang: brucia il sostegno del mondo e apre scenari inquietanti. Chi ama il popolo di Israele non da oggi, chi vuole che finiscano gli attacchi e questa carneficina, chi vuole che la sicurezza per chi vive nello stato di Israele e per gli altri nel mondo, per i popoli vicini, torni possibile, chiede una cosa che attualmente sembra impossibile: ragionevolezza mentre il sangue sporca i vestiti e la mente. Gli alleati di Israele, che hanno ancora i vestiti puliti, hanno questa responsabilità: giornali, governi, Unione Europea, tutti. E quasi tutti siamo anche amici dei palestinesi.