Il conflitto Israele-Palestina
La pace non è un obbligo se ti vogliono morto
Bisogna aiutare gli israeliani a fare la pace, non pretendere che facciano la pace lasciandoli soli e costringendoli a fare la guerra.
Editoriali - di Iuri Maria Prado
È difficile indurre Israele a fare la pace, e a imporsi su quelli che in Israele non la vogliono, se il pogrom del 7 ottobre viene definito, come è uscito di bocca a qualche sconsiderato, “la risposta eccezionale a una situazione eccezionale”. È difficile convenire Israele dinanzi al tribunale della ragionevolezza, della perfezione politica e civile, della compostezza da salottino Onu, se per ogni ebreo massacrato in quanto ebreo, in Israele e nel mondo, si leva l’obiezione sulla terra rubata, sul profilo indiscutibilmente nazista dello Stato ebraico, sulla plateale equivalenza tra Israele e Hamas, anzi l’obiezione che, a ben guardare, il primo, Israele, è molto più feroce e sanguinario e antidemocratico del secondo, Hamas.
È molto difficile aiutare Israele a liberarsi dei propri guerrafondai, che ci sono, e che sono abbondantemente contestati nella democrazia israeliana, se quei figuri, pur pericolosi, pur temibili, pur nemici di qualsiasi soluzione compromissoria, sono messi sullo stesso piano del signori che sgozzano i bambini ebrei e decapitano i prigionieri mentre nelle piazze imbandierate d’arcobaleno si grida che quella è la giustizia che ci vuole contro lo Stato dell’apartheid.
Perché questo bisogna che sia compreso, e ancora non è compreso: tra i ragazzi che, da tutto il mondo, sono tornati in Israele per combattere dopo il pogrom del 7 ottobre, tanti, tanti, tanti non ne possono più di Netanyahu e dei suoi ministri fanatici: ma nessuno tra loro, nessuno, nessuno ha neppure un secondo di esitazione nel mettersi la divisa e prendere il fucile se si tratta di difendere il proprio Paese, la propria gente, le proprie donne, i propri bambini da quelli che vogliono la seconda Shoah mentre l’Europa che fu della Shoah discute del crimine sionista, magari invitando al dibattito il negazionista due-punto-zero secondo cui i laghi di sangue nel Kibbutz venivano dal corpo martire del combattente per la libertà abbattuto dall’esercito colonialista.
È difficile promuovere gli obblighi di pace di Israele quando più di duecento ostaggi, uomini e donne e bambini, passano come il costo inevitabile che Israele deve pagare per una guerra cominciata non sulla scena dei massacri di due settimane fa, ma nel 1948, e cioè da quando la soperchieria ebraica ha reso magari non proprio giustissima, ma insomma comprensibile, la raffica di Kalashnikov contro una scolaresca ebraica in una qualsiasi città d’Europa o l’indottrinamento che insegna ai bambini arabi a uccidere gli ebrei ovunque si trovino.
È difficile, difficilissimo costringere Israele a immettersi in un percorso di pace – che peraltro nessuno dei nemici di Israele vuole – quando passa come una delle ordinarie e comparabili immagini di guerra il video del padre felice perché la sua bambina di otto anni è stata uccisa anziché rapita; il padre che dice che l’uccisione della figlia è stata una benedizione – “a blessing” – perché finire prigioniera di quei macellai sarebbe stato peggio; il padre che preferisce pregare sulla morte di quella bambina anziché immaginarsela terrorizzata in una cantina, affamata, stuprata da quelli che alcune ore prima sputavano sui cadaveri trascinati nella polvere.
Lo Stato di Israele può essere richiamato alle sue responsabilità, alle sue colpe, diciamo pure ai delitti che ha potuto commettere (ma non come organizzazione delittuosa, bensì come democrazia che può commettere delitti, che è una cosa molto diversa) solo a una condizione: e cioè a patto che non uno, nemmeno uno dei crimini spaventosi che ancora subiscono gli israeliani in quanto israeliani, e gli ebrei in quanto ebrei, vada sul conto del peccato originale rappresentato dall’esistenza di Israele e degli ebrei.
Perché finché sarà così, finché non si riconoscerà la perseveranza di quel pregiudizio, vale a dire che l’autobomba a una fermata di autobus di Gerusalemme è comprensibile, il bambino con la Kippah preso a sassate nell’Europa che fu delle leggi razziali è comprensibile, perché queste cose “si spiegano” con l’occupazione dei Territori, con la destra al governo di Israele, con le cospirazioni dell’entità sionista, ecco, finché l’andazzo della reazione sarà questo allora non ci sarà mai pace cui lo Stato ebraico possa essere indotto.
Perché è vero, verissimo, che la pace si fa con i nemici. Ma non se sono tutti nemici. Non se l’unica pace che vuole il nemico è quella della tua morte. Non se la tua morte, per gli altri, è il prezzo accettabile della pace. Bisogna aiutare gli israeliani a fare la pace, non pretendere che facciano la pace lasciandoli soli e costringendoli a fare la guerra. Tu che leggi, tienilo bene a mente: gli israeliani, e direi gli ebrei, si sono sentiti un’altra volta soli il 7 ottobre. E puoi fidarti: avrebbero reagito diversamente se si fossero sentiti meno soli. Faranno di più e meglio per la pace, se si sentiranno meno soli.