La testimonianza dal carcere
In prigione come pesci rossi in una boccia di vetro
La mia visita nel penitenziario di Palmi. Detenuti stretti in pochi metri quadri pieni di ogni cosa: vestiti, pentole, cibo. E io che sono libera mi sento in apnea
Giustizia - di Carmen Gualtieri
Avevo circa sette anni quando i miei genitori mi regalarono un pesciolino rosso. Una sera, mentre lo guardavo girare continuamente in tondo nella sua bella boccia di vetro adagiata sul mobile della cucina, mi pervase un forte senso di sofferenza. Mi convinsi che penava lì dentro e che aveva assolutamente bisogno di più spazio per poter cambiare il suo movimento. Allora lo spostai in una grande bacinella ma, anche lì, mi sembrava che non fosse abbastanza libero.
A quel punto corsi nel bagno, riempii la vasca di acqua fino all’orlo e, appena lo tuffai, lo vidi nuotare velocemente avanti e indietro, indietro e avanti, come una scheggia impazzita. Provai una grande gioia ed ebbi la conferma che la mia intuizione era corretta: soffriva e non poteva vivere in una boccia di vetro. Anche se per lui in realtà sognavo un bel laghetto con tanti pesciolini, mi dovetti accontentare della vasca da bagno e, da quel giorno, pretesi che quella diventasse la sua nuova casa. Dopo che morì, o forse sparì, i miei genitori pensarono bene di non regalarmi mai più un pesciolino rosso.
Estate 2023. Visita al carcere di Palmi con gli avvocati della camera penale e gli amici di Nessuno tocchi Caino. Fatichiamo per entrare e, dopo una lunga attesa, il comandante e gli agenti della polizia penitenziaria ci accompagnano nell’ispezione delle sezioni. Si aprono e chiudono i cancelli alle nostre spalle e ci avviamo verso la sezione transito: un corridoio stretto, cinque o sei celle con in fondo le docce in comune. Inizio a chiedermi quali pensieri possano abitare in questi ambienti, quale possa essere lo stato d’animo di chi, a torto o a ragione, entra qui dentro per la prima, seconda o ennesima volta.
Mi convinco che possano essere solo pensieri agitati, pensieri che si esercitano solo nel trovare la forza per non impazzire, perché qui dentro tutto opprime. Gli odori, i muri scrostati, la muffa, la sporcizia, le sbarre, tutto sembra sospeso e io, libera, inizio a sentimi in apnea. Saliamo verso la sezione alta sicurezza. Ci sono 36 celle speculari per 3 piani. Buongiorno! Buongiorno! Come Va? Tutto a posto! Da dove vieni? Vieni, avvicinati, guarda! Mi affaccio attraverso le sbarre e scruto la cella. Sono in 3 in pochi metri quadrati pieni di tutto: buste, acqua, vestiti, scarpe, intimo e magliette stesi su una piccola finestrella, contenitori di cibo sul tavolo, pentole e padelle appese ai muri, sembra tutto un ritaglio di un’alterata parvenza di vita.
Iniziano i colloqui con un detenuto alla volta. Sergio, Elisabetta e Rita li ascoltano con attenzione e appuntano tutto: un’ora di socialità, una telefonata di un’ora alla settimana per i familiari, tre telefonate di 10 minuti l’una verso gli avvocati, i rapporti con gli agenti sono buoni, fa caldo, manca il frigorifero e via discorrendo. Fabrizio misura alcune celle con la sua cintura di, precisa lui, “98 cm”. Mi dice sorridendo: “dai facciamo finta che sia di un metro, del resto mi pare di capire che qui ci si arrangia con quel che si ha e con quel che si può!”.
Leggo alcuni avvisi affissi su una piccola bacheca. Mi colpisce quello che annuncia “La partita con papà”: per un’ora i bambini potranno giocare a pallone con i loro genitori e trascorrere un piccolo frammento di tempo intriso di ordinaria felicità, che quasi sicuramente passerà via troppo velocemente. Iniziamo a dialogare con gli agenti e capisco che anche loro devono affrontare enormi sforzi quotidiani. Mi spiegano che hanno 40 unità di personale in meno e rimango colpita quando mi dicono: “qui i detenuti hanno solo noi che alla fine dobbiamo fare anche da psicologi”. In fondo, qui dentro ci vuole davvero tanta forza per cercare di non abbrutire il proprio animo.
Il tempo scorre, ma i pensieri e la mia attenzione sono rivolti verso un solo dettaglio, dal quale non riesco a distogliere lo sguardo: le sbarre in ferro, con la vernice verde scrostata, chiuse da una grande serratura. Finalmente usciamo fuori dal carcere. I cancelli si aprono, riemergo dall’apnea, mi volto, osservo l’istituto da fuori e, tutto d’un tratto, mi riaffiora il ricordo del pesciolino rosso nella boccia di vetro.