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Riforme e manovra, la maggioranza annuncia l’accordo e riduce le Camere a organo consultivo

La manovra e le decisioni di Giorgia Meloni

La manovra e le decisioni di Giorgia Meloni

Al vertice della concordia, ieri mattina, c’erano tutti. Non solo i leader delle tre forze maggiori di maggioranza ma anche quelli dei due partiti minori, Lupi e Cesa, le teste di serie del Mef, Giorgetti e Leo, i sottosegretari Mantovano e Fazzolari. Il drappello esce col sorrisone: c’è l’accordo a breve, quello sulla manovra, e anche quello di ben più profonda portata, il premierato.

La manovra è approdata al Senato ieri. Nelle intenzioni del governo la riforma costituzionale, che sarà varata dal cdm venerdì, dovrebbe essere votata in prima lettura almeno da una delle due Camere, meglio se da entrambe, prima delle europee. “Bisogna correre”, ha detto in sintesi la premier agli alti ufficiali. Perché il referendum sarà inevitabile e “bisogna evitare che cada a fine legislatura”. Per un po’ Salvini ha tenuto gli osservatori col fiato sospeso.

L’assenza dei suoi immancabili commenti autorizzava il sospetto che il capo della Lega volesse tenere le carte coperte per condizionare l’iter parallelo della sua autonomia differenziata. Poi è arrivato il semaforo verdissimo: “Riforma di buon senso. Il voto degli italiani conterà finalmente di più”. La bussola della maggioranza è chiara: evitare per quanto possibile tensioni o peggio scontri con il presidente della Repubblica. Per questo il premierato è stato molto annacquato: via il potere di nomina e revoca dei ministri, che resta nelle mani del capo dello Stato.

Via la formula drastica per cui in caso di decadenza del premier eletto si torna al voto, fotocopia della norma sui sindaci a cui teneva molto, dall’esterno della maggioranza, anche il Terzo Polo. Il potere di scioglimento delle Camere resta al presidente. Il quale perde la facoltà di nominare i senatori a vita, e per il Quirinale non è un gran cruccio. Quel che a Mattarella non piace, anche se il ruolo istituzionale non gli permette di ammetterlo, è proprio l’elezione diretta del premier, che toglie al Colle uno dei poteri principali, la nomina cioè del capo del governo.

La legge elettorale ancora non c’è, quella è una palude infida e ancora tutta da bonificare. Nella bozza approvata ieri dal summit è fissato solo un punto chiave: si voterà su un’unica scheda per una delle liste che sostengono il candidato premier e per il candidato medesimo. Comunque vada, il premio di maggioranza porterà comunque il vincitore al 55% dei seggi in Parlamento, e già qui col Senato eletto su base regionale qualche problema è destinato a nascere.

Nell’improbabile caso che l’eletto non ottenga la fiducia delle Camere in due distinti tentativi si torna alle urne. Le cose cambiano se il premier eletto cade, per qualsiasi motivo, in corso di legislatura. In quel caso il presidente può incaricarlo di nuovo oppure scegliere un’altra figura purché all’interno della maggioranza e sostenuta dalla maggioranza, salvo allargamenti.

Il Colle mantiene dunque alcune prerogative essenziali ma con limitazioni molto forti che vietano ribaltoni e governi tecnici. Il premier, inoltre, non potrebbe essere sostituito più di una volta nel corso della legislatura. La mediazione è stata dettata fondamentalmente dalla necessità di non irritare troppo il presidente della Repubblica, ma anche da quella di non arrivare a spaccature nella maggioranza. Fi e soprattutto la Lega erano infatti contrari alla formula drastica del “sindaco d’Italia”, per cui caduto il premier eletto non c’era alternativa al voto.

L’accordo sulla manovra, molto meno incisivo delle riforme ma più immediato e materiale, è stato raggiunto semplicemente perché non c’era alternativa, data la determinazione di Meloni, per le ricadute negative che una divisione avrebbe avuto sulla trattativa europea per il nuovo Patto di stabilità, e di Giorgetti, quest’ultimo con i conti alla mano. Tajani si è accontentato di una modifica sulla cedolare secca per gli affitti brevi: voleva che aumentasse dal 21% al 23% invece che al 26%.

Il 26% è rimasto intatto ma solo per gli affitti dalla seconda casa in più. Come già la Lega la settimana scorsa, gratificata con la conferma di una quota 103 ma messa in modo da disincentivare, tra limiti e penalizzazioni, molti dei 50mila lavoratori che matureranno i requisiti l’anno prossimo. Inoltre la misura è ricaduta tutta sulle spalle dei già pensionati che si sono visti decurtare l’assegno e sono già sul sentiero di guerra. Tajani, come Salvini, ha scelto di fingersi appagato per salvare almeno la faccia.

Ma nel comunicato finale c’è un passaggio la cui importanza va molto oltre la contingenza specifica: “Le forze di maggioranza hanno confermato la volontà di procedere speditamente all’approvazione della Legge di Bilancio, senza pertanto presentare emendamenti. Il governo terrà conto con grande attenzione del dibattito parlamentare e delle considerazioni delle forze di maggioranza ed opposizione”.

Il Parlamento discuterà. Poi la premier e il suo stato maggiore decideranno se ascoltare o meno qualche suggerimento nel probabile maxiemendamento finale. Così in quattro parolette da comunicato stampa il Parlamento passa da sede istituzionale del potere legislativo a organo consultivo. Una riforma costituzionale senza pari varata praticando l’obiettivo. Del resto, nel mirino di questo governo, col premierato, non c’è il capo dello Stato, col quale anzi bisogna andare d’accordo. C’è un Parlamento a cui va tolto anche il poco che gli resta.