Parla l’europarlamentare dem
“Non dobbiamo scegliere quali morti piangere, il Pd deve scegliere la pace”, parla Massimiliano Smeriglio
«I dem non hanno votato la risoluzione Ue a favore del cessate il fuoco: incomprensibile. La sinistra deve rifiutare la logica dell’arruolamento della destra, serve il coraggio di stare in mezzo»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La mattanza di Gaza e i balbettii della sinistra. L’Unità ne discute con chi sul tema ha idee molto chiare e la schiena dritta: l’europarlamentare dem Massimiliano Smeriglio.
Noi de l’Unità andiamo dritto al sodo. Di fronte alla tragedia che si sta consumando a Gaza, come spiega i balbettii del Pd?
La situazione è drammatica, da ultimo la strage di Jabalia Camp lascia senza parole. Nel corso degli anni sono stato in quel campo e in tutta Gaza così come sono stato in Cisgiordania, Gerusalemme e in un Kibbutz affacciato sul confine con il Libano. Per questo penso che le parole vadano pesate. Nessuno ha ricette magiche e comprendo le cautele del gruppo dirigente del Pd. Tuttavia appare abbastanza chiaro il ruolo che la sinistra dovrebbe svolgere in questo scenario tragico di morte e distruzione indiscriminata. Chiedere all’Europa di agire una funzione diplomatica attiva per il conseguimento del cessate il fuoco immediato. Troppi morti, troppi bambini morti e noi non vogliamo, non possiamo dover scegliere quali piangere e quali no. Va disertata la logica dell’arruolamento e va fermata la polarizzazione che porta alla guerra di religione e civiltà. In questo senso non ho capito perché la delegazione Pd, esclusi il sottoscritto e Bartolo, non ha votato l’emendamento alla Risoluzione del Parlamento europeo che proponeva il cessate il fuoco. Linea sostenuta dal governo spagnolo, da Sanchez e dall’Alto rappresentante Borrell. Soprattutto perché l’atto nel suo insieme conteneva parole durissime per la brutale caccia all’uomo di Hamas su suolo israeliano e la solidarietà al popolo israeliano. Ci sono tornanti storici in cui l’unico modo per essere responsabili è il coraggio di mettersi in mezzo. Noi europei non abbiamo vissuto lo shock degli israeliani tormentati dalle immagini di sangue dal rave e dai Kibbutz e dalla presa degli ostaggi, né viviamo perennemente con l’odore della morte accanto come i palestinesi. Questa condizione dovrebbe indurre lucidità e capacità di indicare un cammino utile ad entrambi i popoli. E se vogliamo continuare a sostenere la formula “due popoli due Stati” con i confini del 1967 come dice l’Onu, dovremmo fare in modo che rimanga terra sufficiente per i palestinesi schiacciati a Gaza e assediati da colonie illegali in tutta la Cisgiordania che hanno portato il numero dei coloni, dal 1993 – cioè dal fallimento di Oslo – da 100mila a 800mila in dieci anni.
Scrive Piero Sansonetti: “In tutto il mondo si è manifestato contro la follia di Netanyahu… È solo la politica italiana che dorme. Tutta. Dorme, dorme, dorme, tenuta a bada dai grandi giornali italiani, che sono tutti antipalestinesi”.
Con l’escalation in corso l’orrore che sta vivendo il popolo di Gaza appare ogni giorno più grave. In verità le manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi sono state molte e molto partecipate in tutta Italia, da Milano a Firenze a Roma. Tra il discorso pubblico imposto dalla politica ufficiale, dal governo, che appaiono ciechi e attenti alle ragioni di una sola parte si fa strada un’altra narrazione che si schiera in maniera istintiva con chi appare più debole, i civili bombardati, gli 8mila morti di questi giorni. Che si aggiungono ai 1400 israeliani massacrati da Hamas. Su questo darei un consiglio ai tanti commentatori a reti unificate a senso unico: fate attenzione a non alimentare l’odio verso Israele con atteggiamenti palesemente faziosi. Fate attenzione a non sottovalutare la diaspora arabo musulmana presente nelle nostre città, tendiamogli la mano per costruire una società plurale, non islamofobica, capace di diversità e inclusione. Se li lasciamo in un angolo, senza cittadinanza italiana, a fare da capro espiatorio dei nostri talk prevarrà la logica identitaria, di una identità profonda ed arcaica come quella religiosa come unico riparo degli esclusi, dei senza futuro. Compresa purtroppo la variante islamista violenta.
Se si critica la colonizzazione della Cisgiordania o le condizioni inumane in cui da oltre sedici anni almeno sono costretti a vivere 2,2 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza, in maggioranza sotto i 18 anni, si viene tacciati di essere nemici d’Israele, se non addirittura antisemiti. Cosa significa per Lei “essere amico d’Israele”?
Essere amico di Israele per me significa riconoscere le ragioni storiche che hanno portato alla nascita dello Stato ebraico. I pogrom, il razzismo, l’antisemitismo, le conversioni forzate, la vita nei ghetti, l’impossibilità a svolgere le professioni, il caso Dreyfus, i falsi storici come i savi di Sion, le leggi razziali, su su fino alla Shoa. E nessun genocidio è paragonabile ai campi di messa a morte come Auschwitz, Birkenau. Basterebbe andare accompagnati dai sopravvissuti per capire l’organizzazione fordista applicata alla soluzione finale. Queste le ragioni, tutte occidentali, tutte interne al lascito dell’Inquisizione, dell’assolutismo e agli orrori delle destre del Novecento, che indicano la necessità della esistenza di Israele, come riparo e punto di riferimento degli ebrei di tutto il mondo.
Ma l’accusa di antisemitismo va usata con attenzione. Se tutto è antisemita si svilisce la gravità e la natura violenta di chi attacca le comunità ebraiche in Medio Oriente e nel mondo per ragioni religiose e razziali. Ci sono gli antisemiti, per lo più fascisti e nazionalisti, e vanno combattuti senza dargli tregua; ci sono i nemici di Israele che vanno contrastati; e ci sono quelli come me che criticano le politiche di estrema destra, con posizioni suprematiste, islamofobiche, anti arabe, del governo Netanyahu che viveva e vive una crisi profonda di credibilità e consenso anche tra i cittadini israeliani.
Sono tre cose distinte.
Con quali risultati?
Metterle insieme fa solo, nel medio periodo, un danno gigantesco ad Israele. Senza considerare che in Israele vivono arabi, musulmani, cristiani e non credenti. Schiacciare tutto in “con me o contro di me” ha contribuito alla situazione senza precedenti che stiamo vivendo in cui l’odio sembra prevalere. Inoltre il salto verso forme confessionali dello Stato di Israele non ha a che vedere con la sua origine ma con le modifiche di ordine costituzionale del 2018. Volute dalla destra al governo. In particolare la legge sullo Stato della nazione ebraica, nonostante due dei nove milioni di abitanti siano arabi, legge fortemente contrastata in parlamento e anche dalla società civile israeliana. Legge pessima che non riconosce più l’arabo come lingua ufficiale e che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.
La stampa mainstream ripete: i palestinesi di Gaza sono ostaggio di Hamas. Gli israeliani, in questo schema, sarebbero i liberatori?
Evidentemente le cose sono un poco più complicate. L’opzione del fondamentalismo islamico cresciuta sotto gli occhi distratti dei governi di Israele ha finito per delegittimare e umiliare l’Autorità nazionale palestinese, unica legittima rappresentanza laica derivante direttamente dalla lotta storica dell’Olp. E l’Anp è tra i soggetti che, se rafforzati dalla comunità internazionale, possono lavorare ad un negoziato di pace, dopo il cessate il fuoco. Per questo lunedì sono andato a trovare l’ambasciatrice palestinese a Roma Abeer Odeh. Spezzare in due la rappresentanza territoriale palestinese, favorendo Hamas a Gaza, in funzione anti Anp ha dato i suoi frutti velenosi. Certo gli errori dell’Anp sono evidenti: corruzione, scollamento dalla volontà di resistenza del popolo palestinese, mancanza di libere elezioni. Che poi oggi verrebbero probabilmente vinte da un leader laico, sommerso da centinaia di anni di galera, come Marwan Barghuthi. Che Achille Occhetto individua come un interlocutore credibile per riattivare il processo di pace. In questo contesto, spinta anche da un iniziale consenso popolare, Hamas si è insediata a Gaza sperimentando il suo regime illiberale, fondamentalista, rilanciando non l’autodeterminazione del popolo palestinese, ma la distruzione di Israele in piena sintonia con potenze confessionali e autoritarie del Medio oriente. Oggi la popolazione civile di Gaza è tra due fuochi: le postazioni sotterranee di Hamas e i bombardamenti dell’esercito israeliano. Ma alle logiche di una organizzazione terroristica uno Stato democratico, uno Stato di diritto, non risponde con la medesima moneta, non pratica né la vendetta né la rappresaglia. Uno Stato democratico identifica le responsabilità individuali, non quelle di un popolo. Altrimenti invece di Norimberga avremmo dovuto mettere in catene tutti i tedeschi.
I vari capi di stato o di governo europei si sono precipitati a Tel Aviv per sostenere le ragioni d’Israele dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre. Ma l’Europa in quanto Unione non gioca alcun ruolo in questa crisi. Non ha idee, iniziativa, il nulla.
L’Europa vive un momento di grande difficoltà, schiacciata come è da agende nazionali e nazionaliste, dalla guerra in Ucraina e dalla forza militare e politica atlantica. L’Unione è un soggetto fragile, attraversato da conflitti più o meno espliciti. E la guerra, come si sa legifera, ordina il dibattito, diventa costituente, verticalizza (non un caso il lancio in queste ore del premierato) e mette il bavaglio alla stampa libera. Dobbiamo continuare a batterci per una Europa autonoma, indipendente, sovrana. Una Europa autorevole capace di agire tra le linee e facilitare i processi di pace. Questa opzione di Europa è contrastata dalle destre nazionaliste, compreso il governo Meloni, e dagli atlantisti (politici e opinion leader sempre in onda). Nonostante le difficoltà evidenti dobbiamo batterci per una Europa comunitaria democratica dei popoli. Un continente potenza di pace e diritti umani. Anche oggi, in una ora buia che sembra non lasciare spazio alla speranza. Dovremmo sentire forte la responsabilità di provarci fino in fondo a mettere al centro del dibattito politico, non la propaganda urlata e insanguinata, ma la costruzione di negoziati di pace. In Ucraina e a maggior ragione tra israeliani e palestinesi. Di questo dovremmo discutere oggi e nella prossima campagna elettorale dimostrando che un’altra Europa è possibile e necessaria.