La nuova edizione
La storia della Colonna infame: la gogna spiegata da Manzoni
Il diritto e la giustizia piegati alla ragione politica, la frettolosa condanna di un colpevole purchessia: il saggio racconta l’eterna foga populista che travolge tutto e tutti in tempi di crisi
Cultura - di Filippo La Porta
“La storia della colonna infame” di Manzoni è, nella modernità, la critica più radicale del complottismo, e poi dell’intolleranza, del giustizialismo, dell’isteria popolare, della superstizione. Il male nasce, in questo caso, dall’ “usanza antica, e mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare”.
Nata all’interno di Fermo e Lucia (1823), sotto l’influenza di Walter Scott (ma con una diffidenza verso il romanzesco, verso l’invenzione, che non abbandonerà mai lo scrittore milanese), la Colonna infame acquista poi la fisionomia di un vero e proprio saggio storico posto in appendice ai Promessi sposi (1842). Ma meglio sarebbe considerarlo una anticipazione dell’“odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario” (Sciascia). Ne esce ora una nuova edizione Einaudi, con denso saggio introduttivo di Adriano Prosperi.
Ispirato in parte alle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, che aveva citato la vicenda, il libro racconta il processo a due presunti untori a Milano durante l’epidemia di peste del 1630. I due erano il commissario di sanità Guglielmo Piazza, accusato da una “donnicciola” del popolo e da una sua amica di lasciare con le mani dei segni gialli sui muri, e il barbiere Giangiacomo Mora (da lui vergognosamente coinvolto con la vana speranza di salvarsi: è la eterna storia del pentitismo), che si diceva stessa preparando un unguento curativo.
Entrambi torturati, confessarono quello che non avevano fatto e che volevano sentirsi dire i giudici, proprio come nei processi staliniani, nelle grandi “purghe” degli anni 30 del secolo scorso. I giudizi che nel 1630 condannarono i due (falsi) untori a “supplizi atrocissimi” ritennero di aver fatto cosa così memorabile che al posto della casa demolita di uno dei due sventurati, il Mora (in zona della Vetra, oggi via Mora) si ergesse una colonna.
Il testo si precisa via via e al “tono emozionato di denuncia” si sostituisce una cronaca asciutta, basata rigorosamente sugli atti processuali. In particolare Manzoni mostra di rifiutare il diritto quando sacrifica pretestuosamente la giustizia in nome della ragion di stato, come osserva Ermanno Paccagnini, che ha rivisto questa edizione, tenendo conto delle osservazioni di Salvatore Silvano Nigro.
Ma qual è il vero bersaglio polemico del libello? Certo la paranoia collettiva – è uno straordinario saggio di psicologia delle masse -, la voglia di capri espiatori su cui scaricare ansie e paure, dunque il popolo visto come animale feroce (il “Grosso animale” di Platone), e proprio nella sua componente femminile, la più fragile. Ma soprattutto i giudici, “burocrati del male” che quella voglia accolgono per quieto vivere, per calmare cioè la rabbia popolare.
Assai più di Verri Manzoni sottolinea la responsabilità dei magistrati, i quali per trovare colpevoli i due innocenti sventurati, “per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.”
Il libello venne condannato da Croce per il suo moralismo e storicismo: la Storia infatti, secondo il filosofo, va studiata e non giudicata. E dopo di lui Fausto Nicolini, per il quale i giudici si limitarono ad applicare le leggi e poi i rei erano probabilmente colpevoli, con parecchi precedenti (argomento questo pericolosissimo!). A loro obietta giustamente Sciascia che invece abbiamo il dovere di giudicare il male del passato poiché sempre si ripropone nel presente. Difendendo ad oltranza proprio il “moralismo” di Manzoni, più prepotente delle sue credenze religiose. “Il fascismo c’è sempre”, chiosa Sciascia.
Prosperi ci aiuta a ricostruire i moventi del saggio manzoniano, lo stupore di fronte alla “diceria degli untori in mezzo alla popolazione milanese del 1630”, tale da provocare una epidemia mentale, uno scenario irreale, da incubo. Lo incorpora in Fermo e Lucia, superando i suoi pregiudizi verso la invenzione romanzesca, perché sa che il romanzo è un genere popolare che arriva a tutti, e che dunque ciò ne aumenta la “pubblica utilità”. Si trattava per lui di un delirio collettivo, di un improvviso “accecamento delle menti”, che ogni volta si ripete nella Storia – in quel momento pensava anche al Terrore della rivoluzione francese – e che mette in pericolo la convivenza umana.
Anche il Terrore giacobino infatti, sfociato in dispotismo e stragi, si era nutrito di complottismo. E i suoi tribunali popolari ricordano il tribunale della Colonna infame. Affiora qui la posizione moderata, certamente non reazionaria, dello scrittore, timoroso che la ribellione al potere producesse un disordine tale, “che la stessa popolazione soggetta ne abbia a patire più che per quel governo medesimo” (stava citando san Tommaso). Di qui la sua avversione allo spettro del ‘48, un sistema che vuole raggiungere “una giustizia nuova, inaudita, portentosa, in ciò che pretende come in ciò che promette”.
Insomma una critica della politica come palingenesi umana, come trionfale uscita dalla preistoria, che proprio perciò non si arresta di fonte a qualsiasi mezzo. La riflessione sulla Grande Rivoluzione, accaduta in Francia, non si interruppe mai: ad esempio, pur respinto dai suoi esiti cupi e violenti (come Tocqueville) dovette difenderla contro Rosmini in quanto esprimeva almeno “una tendenza di riforma giusta e legale”. Costante dei suoi studi storici era l’indagine “sulla verità umana delle sofferenze dei vinti e degli oppressi”.
E, come annota Prosperi, Manzoni si conferma “il grande narratore delle pene di perseguitati, di contadini analfabeti alle prese con le prepotenze di nobili, con la viltà di un parroco dimentico del suo ministero…”. Siamo lontani dalle ingiuste accuse di paternalismo che volle rivolgergli Gramsci.
La introduzione conclude poi sulle imbarazzanti analogie con la storia dell’epidemia del Covid nel nostro paese: resistenza a riconoscere la realtà dell’epidemia e diffusione di teorie del complotto (ricordando che tra gli accusati di complottare per asservire l’umanità coi finti vaccini c’era Soros, filantropo e banchiere ungherese, naturalizzato americano, ebreo, definito dalla Meloni nel 1919 “un usuraio”, almeno così leggo in Rete).
Infine, una notazione personale. Rileggendo la Colonna infame mi sono sentito orgoglioso di essere italiano! Rivendico un patriottismo culturale. Siamo il paese dei Beccaria, dei Verri e dei Manzoni. L’opera manzoniana si è inspiegabilmente ricoperta di nobile polvere – fissata una volta per tutte in quell’unico ritratto senile che ne abbiamo – specie a causa degli studi e obblighi scolastici. Ma è lì che dobbiamo tornare quando il diritto si separa dalla giustizia.