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Chi è Don McCullin, il grande fotoreporter che ha raccontato il male della guerra

Il fotoreporter Don McCullin

Il fotoreporter Don McCullin

“Sono cresciuto nella violenza”, quella della povertà e delle strade di Finsbury Park, a Londra, dove viveva in un sottoscala senza il gabinetto in casa, sperando che l’asma di suo padre non fosse più forte del respiro perché “voleva dire che sarebbe arrivato al giorno dopo”.

Comincia così l’incontro con Don McCullin, a Roma per una mostra che raccoglie 60 anni di fotografie di uno dei più grandi fotoreporter del mondo. 88 anni, gli occhi azzurri ancora luminosi, quelli che hanno visto tutto, vita, morte, e quello che c’è in mezzo, al PalaExpo di Roma. Bisogna andarci. Devono andarci le madri, i figli e i nipoti, per sapere che cosa è davvero la guerra. Che cosa è la vita. Come siamo noi. Per decidere come vogliamo essere. In mostra c’è anche la Nikon che aveva sulla faccia, bucata da una pallottola, ma gli ha salvato la vita, in Vietnam. Era il 1968. Per questo se la porta sempre appresso.

“Lavoro ancora, ma sono stanco. È l’età. È quello che vedo” Don è un sopravvissuto. Ma non ai sensi di colpa. “Io sono vivo, tanti di quelli che ho visto, no”. Ha cominciato fotografando i suoi amici della gang dei Guv’nors, quando uno di loro era rimasto coinvolto nell’assassinio di un poliziotto. Era il 1959, la pubblicò The Observer. “Non pensavo di fare il fotografo, ma a scuola ero una specie di disadattato, non avevo tante altre possibilità. Io ero un prodotto “hitleriano”, il figlio dei bombardamenti degli anni Quaranta. La guerra ce l’avevo dentro. Un’intera generazione è cresciuta come me. E i film me lo confermavano, John Wayne e Errol Flynn. Una malattia mentale il mondo a forma di guerra, come un luna park. Senza la fotografia sarei un criminale. Io sono stato educato all’ignoranza, nella povertà e nella superstizione, neppure la religione mi aiutava. Ma la guerra, quella vera, non era quella hollywoodiana. Se la vedi, se ci guardi dentro, vedi che è semplicemente il male. E ci scambiamo ognuno i nostri, di sensi di colpa. Quelli che mi sono rimasti dentro ogni volta che sono uscito dal braccio della morte di Livingston, e che sono stato a Huntsville, in Texas: io, fuori, ero vivo e loro dentro già morti, mentre erano ancora in vita.”

C’è stato anche lui a Huntsville: “Una mostruosità”. Poi torniamo al ’68. È stato anche l’anno della guerra civile in Biafra, che adesso è Nigeria, e della carestia. “Entro in un orfanotrofio che chiamavano ‘ospedale’ – mi racconta – e c’erano 600 bambini moribondi per la fame. Io ero bianco, per loro ero solo una cosa, la possibilità di avere cibo. Ma io avevo solo due macchine fotografiche al collo. Non so quanti di loro sono sopravvissuti. Non posso dimenticarlo”. Ho, da ragazzo, lo stesso ricordo, dall’altra parte del mondo: “Io ero giovane, ma in tanti ci siamo mobilitati qui in Italia per fare arrivare cibo in Biafra: altri si sono salvati per quelle foto, perché abbiamo visto”.

Indelebile è la madre che allatta dal seno secco, un’altra con un bambino albino, gambe come stecchini, e tanti piccoli gonfi che aspettano. Con la fame, creata dalla guerra, si aspetta e basta. Ma indimenticabili sono anche le foto del Muro di Berlino non ancora costruito, a Ferragosto 1961, la vita sospesa, da una parte e dall’altra, l’americano con la mitragliatrice e le scarpe lucide, la foto presa dal basso, con la donna che cammina dietro l’angolo: la storia è già cambiata, ma dietro l’angolo non si sa ancora. Don c’era andato comprandosi da solo il biglietto, per raccontare l’inizio di una ferita dell’anima e dell’Europa che nessuno sapeva che sarebbe durata 28 anni.

“Allora, Don, che cosa è la guerra?” “Non è Hollywood. La povertà non è Hollywood. Se vuoi fare il fotoreporter di guerra, oggi, va’ a fotografare la povertà in Italia, in Inghilterra, vicino casa tua. Adesso i fotografi non li vogliono in guerra. In Ucraina si vedono i bombardamenti, ma non si vedono mai i morti, eppure sono centinaia di migliaia. La fame rende i corpi gonfi e ischeletriti, le teste diventano tutte occhi. Quelli che stanno per morire guardano tutti in alto. E la disperazione delle madri e delle mogli si assomiglia, donne turche e donne greche, mamme libanesi a Beirut, cristiane o musulmane, anche se quella disperazione ogni volta è unica”.

“Penso alle foto nell’ospedale per ragazzini disabili di Sabra, dove le bombe israeliane lanciate dal mare ne hanno uccisi venti, e ne è appena caduta una. Alle foto di Lymassol, a Cipro, durante la guerra civile turco-greca. Nei villaggi cambogiani e vietnamiti. Si assomiglia l’abitudine alla morte, chi passa accanto ai corpi e li evita, solo per tornare a casa. I marines ripresi nella casa vietnamita distrutta dove per terra c’è la foto felice del matrimonio dei due giovani che ci vivevano”. Torno sulla stessa domanda: “Che è la guerra?”.

“È un manicomio. Tira fuori la follia che abbiamo dentro”. Ieri e oggi. “Quello che sta accadendo oggi è disgustoso, tragico, avrebbe dovuto essere risolto pacificamente molto tempo fa, Ucraina, Israele. I palestinesi hanno sempre avuto cattive leadership che decidono male per tutti, e gli israeliani hanno sempre rimandato la pace per prendere più territorio e più insediamenti. La rappresaglia è però una catastrofe, perché è sempre contro chi è innocente, donne e bambini. Le vittime in tutte le guerre sono in massima parte le donne e i bambini, che sono gli ultimi a sapere che la tragedia sta arrivando”.

“Ho visto le tue foto della battaglia di Huè, l’antica capitale del Vietnam, presa dai vietcong e dall’esercito nord-vietnamita nell’offensiva del Tet, sempre nel 1968, quando il generale Giap scatenò a sorpresa un’offensiva in cento città vietnamite, prendendo di sorpresa l’esercito del sud e gli americani”. Per riprenderla, ci vollero quasi due mesi, strada per strada. Dal cielo sono scese tante bombe che insieme hanno superato la potenza di quella di Hiroshima. Tante, in quelle settimane, le esecuzioni sommarie fatte dai nordvietnamiti: 2800 civili trovati nelle fosse comuni e altri 3000 scomparsi. L’offensiva, arrivata fino all’ambasciata americana a Saigon, fu fermata.

Ma si è incrinata lì l’invincibilità americana.Era la fine del mito. È stata una vittoria americana temporanea a prezzi enormi, pagati da gente innocente”. “Che rapporto hai con la morte?”, “La morte mi ha accompagnato tutta la vita. Ho trovato mia moglie, morta nel letto, la mattina del matrimonio di mio figlio. Si diverte la morte. Io odio la pornografia del dolore. Lo devi guardare sempre dalla parte di chi fotografi, con affetto per loro, è l’unico modo”. “Come provi a guarire dal dolore?”.

“Adesso, attraverso i paesaggi. Cerco un luogo dove l’umanità può ricominciare. Ma ho 88 anni e mi sento uno sconfitto. Tutta la vita a fotografare l’orrore per fare finire la violenza e la povertà. E non ci sono riuscito. Sono un fallito, in fondo”. Non sono d’accordo. Ricordo, e gli cito a memoria, qualche sua foto che ha segnato anche il mio immaginario. “Macché, sei la memoria e la coscienza nostra e del mondo. E la violenza, anche quando sembra imperante, ha i giorni contati proprio per questo. Perché nei sotterranei della storia, nelle generazioni, nel cuore, c’è chi resiste e prepara il futuro”.