Il processo mediatico
Perché non si possono pubblicare immagini di persone arrestate o in manette, l’esorcismo penale che seppellisce il diritto
Il suppliziato è il colpevole, noi gli spettatori, golosi della sua sofferenza, innocenti a buon mercato. “Quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”, scriveva Albert Camus
Giustizia - di Giuseppe Losappio
La cronaca ha di recente fatto esplodere il caso di una giudice arrestata perché la sentenza era diventata definitiva e non sussisteva nessuna delle condizioni per la sospensione dell’ordine di carcerazione. La notizia non è nella (sconcertante e gravissima) vicenda giudiziaria “a monte”, già ampiamente conosciuta fin dai primi atti delle indagini preliminari.
La notizia non è nemmeno nel provvedimento restrittivo, che di per sé era appunto solo un atto dovuto. Il clamore è stato suscitato dal disperato e toccante tentativo del figlio di preservare la madre dalla voracità spietata della “infocrazia” (Byung-Chul Han), che rivendicava di riprendere le ultime fasi dell’arresto. Spetta ai difensori della donna, innanzitutto, nelle sedi che riterranno più opportune di tutelare i diritti che potrebbero essere stati violati.
Senza entrare nel merito più tecnico della questione, certo è che numerose fonti positive e giurisprudenziali riconoscono il diritto alla riservatezza della persona sottoposta a una situazione di “cattività”. Il codice di procedura penale (art. 114, co. 6) vieta «la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica».
Edmondo Bruti Liberati, già Procuratore della Repubblica di Milano, ricorda che la violazione di questa disposizione costituisce illecito disciplinare ma «non risultano segnalazioni del pubblico ministero e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazione di foto e riprese di arrestati in manette, talora, ma non sempre, con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque paradossalmente ancor più sottolineate».
L’art. 8 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica stabilisce che «il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato». La disposizione fa salvi i casi in cui sussistano «rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia». Sulla stessa linea una sentenza del 2005 della Corte europea dei diritti dell’uomo (Sciacca c. Italia) ha ritenuto che la divulgazione alla stampa della foto di una persona arrestata, non necessaria per lo sviluppo delle indagini, costituisce un’ingerenza non giustificata nel diritto al rispetto della vita privata.
L’indice è lungo ma la sostanza delle diverse voci è ampiamente corrispondente. Il quadro è chiaro, mentre fosche, direi tenebrose, sono alcune considerazioni che la vicenda sollecita. Tra le molteplici chiavi di lettura alle quali si presta l’episodio, la cifra più rilevante mi sembra l’intramontabile fortuna dello “splendore dei supplizi” – affermazione del filosofo francese Michel Foucault – che la “presa-diretta” permanente, nella quale siamo immersi, ha radicato e vascolarizzato in ogni angiporto della nostra società, sempre più feroce e “gotica”.
In questa prospettiva, più di tutto, mi ha impressionato un aspetto, un dettaglio che può sembrare marginale. Le sirene urlanti delle autovetture dei finanzieri in fuga verso il carcere. Assolutamente inutili per la sicurezza della “procedura”, assolutamente indispensabili perché l’iconografia dell’arresto fosse esaltata dalla colonna sonora più appropriata e coinvolgente.
Così funziona l’esorcismo penale, come ha scritto Luigi Stortoni. Ad onta della buona novella costituzionale, che recita l’umanità delle pene, la prassi spesso è la crudeltà dell’esecuzione. La promessa del perdono dello spettatore che incattivendo contro il “condannato” si impietosisce verso sé stesso contemplandosi nella sua onestà, senza prova contraria. “Di qui – scrive ancora Foucault – la straordinaria curiosità che preme” il pubblico “intorno al patibolo e alle sofferenze che dà in spettacolo; vi si decifrano il delitto e la innocenza, il passato e il futuro, il terreno e l’eterno”.
Con lo splendore del supplizio, la liturgia dell’arresto, il canto gregoriano delle sirene, il “ciclo è chiuso”. L’esecuzione della pena “ha prodotto e riproduce la verità del crimine. O piuttosto, costituisce l’elemento che attraverso tutto un gioco di rituali e di prove confessa che il crimine ha avuto luogo … assicura la sintesi della realtà dei fatti e della verità dell’informazione”: il suppliziato è il colpevole, noi gli spettatori, golosi della sua sofferenza, innocenti a buon mercato. “Quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”. Così scrisse Albert Camus oltre settant’anni fa. Credo che avesse profondamente ragione.
*Professore ordinario di diritto penale, Università degli studi di Bari “Aldo Moro”