La riforma della Meloni

Il premierato è un killer: così abbatterà la nostra democrazia

I candidati trasformati in una claque dell’aspirante premier, il capo dello Stato ridotto a sagoma, il Parlamento trasfigurato nella ridotta del leader, addio alla separazione dei poteri: un disastro

Editoriali - di Michele Prospero

8 Novembre 2023 alle 16:17 - Ultimo agg. 8 Novembre 2023 alle 16:20

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Il premierato di Giorgia Meloni
Il premierato di Giorgia Meloni

Giorgia Meloni ha ragione. La “madre di tutte le riforme” è realmente un evento rivoluzionario. Alla maniera di de Maistre, però, si tratta di una rivoluzione contraria con cui il vecchio polo escluso, attraverso “il governo del presidente eletto”, abbatte la democrazia rappresentativa.

La destra non bada alla coerenza tecnica di un lavoro di manutenzione, ma dispone una intrusione nella Carta di innesti irrazionali e istanze eterogenee. Per sfasciare le mappe dell’ordinamento, i costituenti di Colle Oppio colpiscono principi supremi indisponibili come la separazione dei poteri, la centralità parlamentare, la rappresentatività, e annichiliscono il compito degli organi di garanzia.

Svilendo la mediazione del Parlamento, come luogo della sovranità popolare e sorgente della composizione plurale di tutti gli organi costituzionali, vengono graffiati anche i cardini del governo rappresentativo. L’invenzione del premierato elettivo fa esplodere l’antica base parlamentare della repubblica per introdurre una carica carismatica che non ha vincoli provenienti dai custodi (la moral suasion del Colle viene evirata da un capo di governo che beneficia dell’unzione popolare) e si introduce nella stanza dei bottoni ritenendosi immune dal controllo delle Camere (è introdotto surrettiziamente un vincolo di mandato per gli eletti).

Adoperando una terminologia all’apparenza iper-democratica, Meloni vende al pubblico la finzione secondo cui, grazie alla sua revisione, il cittadino acquista un potere in più diventando sul serio “il sovrano”. Nel solco di Schmitt, la destra invoca un inveramento del principio della sovranità popolare che elimini la distinzione tardo-liberale tra esercizio e titolarità del potere.

In realtà, per aggirare l’inconveniente di una maggioranza diversa tra i due rami del Parlamento, viene escogitata la trovata di una sola grande scheda sulla quale, oltre ai nomi dei candidati presidenti, sono ospitate le liste sia della Camera che del Senato. L’elettore con in mano la grande scheda bloccata – un voto unico ha un effetto triplice giacché definisce tre organi dello Stato – conferisce una delega al capo sulla base di una induzione meccanica che lambisce la conformazione separata dei poteri, l’assetto bicamerale, la libertà di espressione di un consenso ponderato e diversificato.

Con la forzatura per cui il premier “è” anche la lista o coalizione al suo seguito e i partiti coalizzati “sono” anche il premier, non è ammesso il voto disgiunto che dà la possibilità di scegliere uno schieramento e non il “suo” candidato premier, o viceversa, come accade per le Regionali. La logica del sistema diventa solo discendente. La democrazia rappresentativa viene saccheggiata dall’acclamazione del capo che, grazie alla scheda unica, trascina i parlamentari, i quali, degradati nel loro ruolo rappresentativo, interpretano una semplice comparsa scenografica.

Cade così la cornice classica della separazione dei poteri e, in virtù del meccanismo del voto congiunto, l’esecutivo assorbe il legislativo prenotando anche l’occupazione delle postazioni di garanzia (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Csm). È il premier che attira l’eletto come una sua personale ombra, con la conseguenza che, in un siffatto schema leaderistico, la competizione territoriale per un seggio diventa un rito irrilevante. La mediazione politica evapora con la mistificazione del vero sovrano – il capo di governo – che insieme governa e rappresenta, dell’alto che surroga il basso, del Palazzo che diventa l’unico territorio esistente (il premier è il popolo).

Si ritorna alla mentalità assolutistica di Hobbes, dato che il momento della sovranità inghiottisce anche le funzioni della rappresentanza. L’esecutivo opera in effetti come il potere assorbente che, per via della sua genesi dal voto, precede e istituisce la rappresentanza (la quale è distribuita secondo il risultato ottenuto dal candidato premier), determinando così un completo rovesciamento della modernità politica.

Nell’inseguire una modalità rappresentativa che cala dall’alto, la destra imprime una torsione autoritaria all’assetto istituzionale restringendo ogni spazio di democrazia deliberativa (con il suo andamento che sale dal basso). In nome di una piena sovranità popolare ricamata senza più forme e limiti, le nuove disposizioni svuotano al contempo la rappresentanza, ridotta a un’appendice del capo legittimato dal popolo, e le garanzie. La riforma Meloni procede per sottrazioni.

Al Parlamento ruba, oltre all’espressione del pluralismo politico-istituzionale, anche la sostanza del voto di fiducia che determina l’indirizzo politico. Al presidente della Repubblica scippa la nomina del premier (nel nuovo testo si legge che il capo dello Stato “conferisce al presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico”, come se una carica esistesse prima ancora dell’incombenza del Quirinale). Per il Colle, inoltre, sfuma la partecipazione attiva a sbrigliare le congiunture più complesse che rivelano una paralisi delle assemblee, una dissoluzione delle forze politiche.

Scarico è anche il potere presidenziale di sciogliere le Camere: la nuova formula stabilisce che il Quirinale “procede” allo scioglimento secondo automatismi che non lasciano margini di ponderazione discrezionale. Depotenziato in caso di conflitto tra i poteri (dinanzi all’unto del Signore, il capo dello Stato, eletto per volontà di un Parlamento a rimorchio del leader, è una figura afona), il presidente della Repubblica smarrisce persino la funzione simbolico-rappresentativa dell’“unità nazionale”, che diventa un simulacro al cospetto del corpo del premier insediato dal popolo.

Nella loro messa in opera, le nuove norme affidano a sua maestà il caso la decisione se a prevalere sarà il volto autocratico del capo (con un partito maggioritario alle spalle, egli non avrebbe freni, e per lui non valgono neppure i limiti dei mandati previsti per i sindaci) o lo spettro della instabilità (in presenza di una coalizione frammentata, si delineerebbe o un potere di ricatto dei partner minori, che a quel punto avrebbero potere di vita e di morte sul premier, o una sorta di costituzionalizzazione del “patto della staffetta” tra il primo e il secondo partito, come ha osservato Massimo Villone).

Tra i tanti pasticci formali presenti nel disegno, il più eclatante sembra quello per cui il “Presidente eletto” potrebbe anche non spuntarla in Aula durante la fase post-elettorale. Quando una carica monocratica emerge scomodando il “popolo sovrano”, non è ammissibile sottoporre il vincitore della contesa anche al passaggio parlamentare per riscuotere la fiducia ad inizio legislatura. Se i cittadini hanno davvero lo scettro, le Camere non possono intervenire ex post come se nessuna elezione diretta fosse avvenuta e spingersi fino a negare Palazzo Chigi a chi ha raccolto il favore del corpo elettorale.

Se il presidente del Consiglio viene eletto dal popolo, l’investitura e la durata del mandato devono essere sottratte alla volontà dei rappresentanti di determinare “la cessazione della carica” del premier. Del pari contraddittoria si configura quindi, dopo l’elezione, la previsione della possibilità di attivare una mozione di sfiducia. Rifiutando il criterio della separazione dei poteri, la riforma Meloni insinua nella forma di governo una disfunzionale confusione delle competenze tra legislativo ed esecutivo.

È del tutto illogico che una maggioranza trainata nei suoi numeri solo dal consenso conquistato dal premier continui ad operare dopo l’abbattimento del capo di governo direttamente eletto e fonte del premio di maggioranza. Il transito parlamentare del “Presidente eletto” non può avere altro senso se non quello di autorizzare l’allargamento della maggioranza anche attraverso pratiche furbesche.

Se infatti la delimitazione del perimetro della maggioranza non è conclusa già al momento della presentazione delle liste, e quindi si può dilatare o restringere in Aula alla prima occasione utile, diventa egualmente possibile per i partiti di minoranza non partecipare al voto oppure concedere la fiducia al governo al fine di rendere così possibili in futuro tutti i giochi trasformistici (con i conseguenti “ribaltoni”).

Chiaramente irrazionale è poi la possibilità che le Camere diano la fiducia ad un secondo presidente – il nuovo art. 94, in un italiano contorto, parla di “un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto” – il quale, sebbene subentri senza alcun voto popolare, naturalmente possiede le stesse facoltà del precedente capo di governo dotato del plusvalore politico della legittimazione diretta.

Se un premier di origine solo parlamentare ha i medesimi attributi accordati al leader unto dal popolo, allora priva di un fondo razionale si dimostra o l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo (dal momento che si può godere delle stesse prerogative senza tirare in ballo il “popolo sovrano”) o il conferimento al subentrante di uguali se non rafforzate potestà decisionali (egli, di fatto, ha il potere di scioglimento delle Camere).

La rinuncia a far valere la distinta matrice legittimante del Parlamento e del governo, accorpando ad un capo eletto dai cittadini un numero certo di deputati, conduce a stravolgimenti insostenibili. I principi chiave della Costituzione – in primo luogo, per ironia della sorte, proprio la sovranità popolare che si vorrebbe invece concretare – vengono sfigurati da una riforma la quale congela nel corpo della Legge fondamentale l’adozione di una stringente formula elettorale distorsiva, che può tradursi in una “dittatura della minoranza” (non si parla di una soglia minima per incassare il premio di maggioranza del 55% dei seggi; il vecchio Acerbo almeno aveva stabilito il quorum del 25%).

Un ambiguo spirito di avventura si percepisce quando Meloni affida ad una legge ordinaria come quella elettorale – la quinta varata in trent’anni, con due viziate da illegittimità costituzionale – la determinazione dell’eventuale ricorso al ballottaggio per stabilire il vincitore sulla base della maggioranza assoluta.

Un senso di brivido istituzionale si avverte allorché l’esecutivo ricorre alla logica dei due tempi tra revisione costituzionale e adozione della nuova tecnica di trasformazione dei voti in seggi. È infatti sempre possibile che le modifiche alla Costituzione siano approvate, secondo le normali previsioni temporali, mentre si inceppi la strada per il varo della disciplina elettorale (riformabile, in ogni caso, attraverso il procedimento legislativo ordinario). Inoltre, nulla esclude che il referendumabrogativo o costituzionale – possa promuovere una delle riforme e bocciare l’altra, producendo così un dissolutivo caos.

8 Novembre 2023

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