Solo proclami

Tagli e assegni più magri, Meloni fa cassa con le pensioni

Dall’Ape sociale a Opzione donna, il governo rende più difficile e meno remunerativa l’uscita anticipata dal lavoro. Cala la mannaia anche sulle nuove generazioni, pesantemente penalizzate

Editoriali - di Cesare Damiano - 9 Novembre 2023

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I proclami di Salvini sulla legge Fornero
I proclami di Salvini sulla legge Fornero

Finalmente abbiamo il testo definitivo della legge di Bilancio e possiamo fare una prima valutazione veritiera delle proposte del Governo sulle pensioni. Abbiamo inseguito comunicati e bozze e registrato le lamentele dei partiti di maggioranza, soprattutto Forza Italia e Lega, su casa e pensioni, e adesso possiamo tirare le somme.

Da un punto di vista politico è piuttosto evidente che la Lega ha conseguito una vittoria di Pirro con il ripristino di una “Quota 103” condita di pesanti penalizzazioni all’importo della pensione, oltre al peggioramento di tutte le normative di anticipo pensionistico.

Per chi ha gridato ai quattro venti che il suo obiettivo era quello di cancellare la legge Fornero diventerà difficile spiegare come mai, con queste ultime misure del governo che peggiorano addirittura quelle già punitive adottate l’anno scorso, questo disastro previdenziale sia potuto accadere. Com’è nostra abitudine, vorremmo offrire a chi legge una guida ragionata sui principali capitoli, in questo caso, previdenziali.

Ape sociale

Partiamo dall’Ape sociale: la normativa viene prorogata solo per il 2024, ma il requisito anagrafico viene portato da 63 anni a 63 anni e 5 mesi, con la conferma di un massimo di 36 anni di contributi, restringendo in questo modo la platea dei beneficiari, che passerebbe dai 16.600 previsti per quest’anno ai 12.500 del 2024.

Opzione donna

Stessa sorte restrittiva per quanto riguarda Opzione Donna, che viene anch’essa prorogata per il solo 2024, ma con il requisito anagrafico che passa a 61 anni rispetto ai 60 precedenti.

La normativa dell’anno scorso aveva già peggiorato notevolmente la situazione riducendo la platea a tre specifiche situazioni: lavoratrici che assistono un parente disabile; che abbiano una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 74%; licenziate o dipendenti da aziende in crisi. Prima di questa norma contenuta nella legge di Bilancio dello scorso anno del governo Meloni, occorre ricordare che Opzione Donna riguardava tutte le lavoratrici.

Per capire di quale restrizione stiamo parlando è sufficiente analizzare poche cifre: dalle 17.000 lavoratrici che hanno usufruito dell’anticipo, con l’ultima legge di Bilancio del governo Draghi, con uno stanziamento di 111 milioni di euro, alla previsione di 2.200 lavoratrici nel corso del 2024, con una risorsa di 19 milioni di euro.

Quota 103

Veniamo adesso alla tanto decantata Quota 103. Chiariamo, intanto, che il termine Quota è del tutto fuori luogo. Infatti, le Quote sono nate con il secondo governo Prodi, quando ero ministro del Lavoro: all’epoca, era il 2007, il numero magico che proposi alle parti sociali era 97, formato da 60/61/62 anni di età da sommare, rispettivamente, a 37/36/35 anni di contributi.

Il totale dava sempre 97, ma i due addendi avevano una flessibilità di due anni. Quota 103 è in realtà una “finestra” con due addendi rigidi: un minimo di 62 anni di età e di 41 di contributi. Facciamo un esempio: se un lavoratore totalizza i 41 anni di contributi all’età di 61 anni non può andare in pensione: dovrà aspettare un anno ancora, quando avrà 42 anni di contributi e, nei fatti, Quota 104.

Fornita questa precisazione, abbiamo visto come nelle bozze della legge di Bilancio ci fosse la proposta di alzare di un anno l’età anagrafica, portando Quota 103 a 104 (63 più 41). Le proteste della Lega hanno ripristinato, in parte, la situazione precedente. Ma si tratta di un risultato formale, perché la sostanza è un grave peggioramento del meccanismo.

Vediamo perché: l’assegno pensionistico verrà liquidato con un calcolo interamente contributivo, per i periodi anteriori al 1996, con una perdita monetaria significativa sulla pensione. Viene ridotta la soglia all’interno della quale è possibile accedere alla misura, che passa da 5 a 4 volte il minimo, poco più di 2.000 euro lordi mensili. Il pagamento della pensione, dal momento della maturazione dei requisiti, avverrà dopo 7 mesi per i dipendenti privati (rispetto ai 3 mesi del 2023) e 9 mesi per quelli pubblici (rispetto ai 6 mesi del 2023).

Permane il divieto di poter cumulare la pensione con altre attività lavorative, ad eccezione delle prestazioni occasionali comprese nel tetto dei 5.000 euro annui.

Un peggioramento su tutta la linea che ci porta a formulare una domanda: perché mai una lavoratrice, che oggi può andare in pensione con 41 anni e 10 mesi di contributi, a prescindere dall’età anagrafica e senza penalizzazioni, non dovrebbe aspettare 10 mesi anziché scegliere Quota 103 e subire la decurtazione dell’assegno pensionistico? Lo stesso ragionamento vale per un lavoratore che dovrà aspettare soltanto un anno in più, cioè il tempo di avere 42 anni e 10 mesi di contributi.

Accesso alla pensione di vecchiaia e contributiva

Altra novità riguarda il valore dell’assegno previdenziale per accedere, a 67 anni, alla pensione di vecchiaia con almeno 20 anni di contributi. Si tratta di una delle poche innovazioni positive: in precedenza l’accesso era consentito solo a coloro che conseguivano una pensione del valore di 1,5 volte il minimo, circa 790 euro mensili.

Adesso il rapporto è sceso a 1 a 1, cioè 525,38 euro: un cambiamento che va a vantaggio delle generazioni più anziane, quelle che stanno per andare in pensione. Manco a farlo apposta, appena c’è una scelta che va nella giusta direzione, viene subito accompagnata da un’altra che va nella direzione opposta e, questa volta, contro i giovani che sono i più svantaggiati, insieme alle donne, nel sistema previdenziale.

Infatti, viene loro incrementato, dalle attuali 2,8 volte a 3 volte il trattamento minimo (1.576,14 euro lordi mensili), il valore dell’assegno previdenziale che consente di accedere alla pensione, all’età di 64 anni, ai lavoratori che hanno cominciato la loro attività dopo il 1995 e che hanno, quindi, un regime tutto contributivo.

Facciamo il solito esempio: se uno di questi lavoratori ha cominciato la sua attività nel 1996 all’età di 20 anni, oggi ne avrà 48 e avrà maturato 28 anni di contributi. Si tratta di una platea che noi consideriamo “giovane”, figlia della legge Dini che ha spaccato le generazioni tra chi ha cominciato prima del 1995 e chi dopo, con il passaggio dal regime retributivo della mia generazione al regime misto o, come in questo caso, tutto contributivo.

Si tratta di generazioni che vedranno penalizzato l’assegno pensionistico e che, con questa legge di Bilancio verranno ulteriormente colpiti. Piove sul bagnato. Sono stati inutili gli incontri tra governo e parti sociali nei quali, soprattutto i sindacati, chiedevano di portare quel 2,8 almeno a 1,5 per favorire l’accesso alla pensione anticipata.

La risposta dell’Esecutivo è stata di alzare l’asticella a 3 e di introdurre una finestra di 3 mesi per il pagamento della pensione. Almeno i finti paladini delle pensioni la smettano, per pudore, di sciacquarsi la bocca con i giovani.

Indicizzazione della pensione

Si confermano sostanzialmente i meccanismi dell’anno scorso: l’unica differenza riguarda i trattamenti superiori a 10 volte il minimo la cui indicizzazione scende dal 32 al 22% a partire dal 2024. Di questo, sicuramente, non ci preoccupiamo: la nostra attenzione è rivolta invece ai pesanti tagli alle pensioni del ceto medio già decisi l’anno scorso.

Infatti, rispetto alle percentuali previste dal governo Draghi per il 2023, che erano una rivalutazione del 100% per le pensioni fino a 4 volte il minimo (525,38 x 4 = 2.101,52 euro), del 90% per le pensioni di importo compreso tra le 4 e le 5 volte e del 75% per quelle superiori, il subentrato governo Meloni ha effettuato un vero saccheggio.

Le percentuali sono diventate del 100% fino a 4 volte, e fino a qui non cambia niente. La musica è diversa da questo punto in poi. Diventa dell’85% fino a 5 volte; del 53% fino a 6 volte; del 47% fino a 8 volte; del 37% fino a 10 volte; del 22% per gli importi superiori. Con questo scherzetto dello scorso anno, che continua, i risparmi ricavati dalle pensioni, in base alle stime della relazione tecnica della legge di Bilancio, ammontano a 36 miliardi nel decennio 2023/2032.

Si poteva perlomeno utilizzare una piccola quota di questo ingente bottino per non peggiorare quest’anno le normative esistenti. Così non è stato: il saccheggio alle pensioni continua nonostante i proclami del Governo che vanno in senso opposto.

L’incentivo per rimanere al lavoro

Viene mantenuta la norma del 2022 che incrementa la retribuzione del lavoratore che decide di rimanere in attività, al compimento dei 62 anni di età con 41 anni di contributi, fino al momento della maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia, a 67 anni.

Il meccanismo consiste nella rinuncia ai contributi a carico del lavoratore che vengono versati in busta paga. Si tratta di una partita di giro: in cambio di una busta paga più pesante si avrà una pensione più leggera, a partire dalla maturazione della pensione di vecchiaia e per sempre.

Una misura che viene presentata come un’opportunità per incrementare la retribuzione, ma che finisce per impoverire per tutto il resto della propria vita l’importo della futura pensione. Infatti, in base alla stessa relazione tecnica, dovrebbe riguardare solo 6.500 lavoratori.

Aliquote di rendimento

Con una misura che, per bocca del sottosegretario Claudio Durigon, il governo sarebbe già pronto a correggere la riduzione della pensione per i lavoratori pubblici iscritti alle gestioni ex-Inpdap (personale degli enti locali, dalla sanità, della scuola e degli uffici giudiziari).

Vengono riviste, retroattivamente e al ribasso, le aliquote di rivalutazione dei periodi contributivi inferiori ai 15 anni dei lavoratori che avevano maturato meno di 18 anni contributivi prima del 1996. Dalla relazione tecnica emerge che, in venti anni, la misura produrrà risparmi, al netto degli effetti fiscali, pari a 21 miliardi e 370 milioni di euro.

Un vero salasso. C’è stata l’immediata reazione delle categorie interessate, in primis i medici, con la conseguente minaccia di esodi anticipati e il proliferare di possibili contenziosi e la dichiarazione di sciopero.

La previdenza integrativa

Per concludere, un’ultima notazione che riguarda il secondo pilastro previdenziale. Il tema era stato affrontato in uno dei tavoli di confronto con le parti sociali e, in particolare, il sindacato aveva avanzato la richiesta di un semestre di silenzio-assenso, replicando in questo modo la norma adottata dal secondo governo Prodi, che aveva superato l’obiettivo di oltre un milione di nuovi iscritti ai Fondi pensione.

L’attuale governo ha semplicemente cancellato l’argomento dimostrando, in questo modo, una scarsa lungimiranza. Infatti, in un tempo nel quale le nuove generazioni corrono realmente il rischio di avere pensioni insufficienti, aggiungere una pensione complementare a quella pubblica non è un lusso, ma la strada per arrivare a una pensione almeno dignitosa.

Una conclusione amara

L’intervento sulle pensioni si dimostra, dunque, di corto respiro e con l’obiettivo principale di fare cassa e non di riformare in senso moderno il sistema pensionistico introducendo una misura universale di flessibilità. Quello che è inquietante non è tanto la distanza tra promesse elettorali e azione di governo, ma il fatto che si continui a propagandare come un grande risultato la scelta di mettere le mani nelle tasche dei pensionati. Se andiamo avanti così saremo costretti a rimpiangere la legge Monti-Fornero.

9 Novembre 2023

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