Le sfide dem
Il Pd supera l’esame della piazza, ma il vero test saranno le elezioni regionali
Ma per Schlein è fondamentale recuperare consensi in vista delle scadenze elettorali. La prova difficile non saranno le europee ma le regionali
Politica - di David Romoli
Sospironi di sollievo al Nazareno. La prova della piazza è passata ed è andata bene. I media amici hanno dato una mano gonfiando doverosamente le stime dei partecipanti ma lo sforzo organizzativo del partito è stato premiato e l’affluenza è stata davvero soddisfacente anche se non straripante come da versione ufficiale.
Il quesito è quanto questo successo basti a superare una difficoltà che è palese anche se non ammessa dalla segretaria e dal suo gruppo dirigente. I sondaggi sono univoci: danno responsi come sempre molto diversi a seconda delle specifiche agenzie di rilevamento ma, sia pure in misura molto diversa, tutte registrano un univoco calo di consensi rispetto ai primi mesi della segreteria Schlein.
Lì, naturalmente, giocava l’effetto novità ed è fisiologico che dopo un po’ si esaurisca. Ciò non toglie che recuperare e accrescere quei consensi sia fondamentale per Elly Schlein, se vuole uscire in piedi dalle prove che la aspettano. La più pericolosa non sono le elezioni europee. Il partito è bloccato dall’armistizio interno tra le sue varie anime dovuto proprio all’avvicinarsi di quella prova ma allo stesso tempo si aspetta un risultato nella forbice che non cambierebbe di un millimetro le cose: tra il 18 e il 22%.
La vera prova difficile sono le regionali. Nel 2024 si vota in cinque regioni: Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria. Solo in Sardegna, a febbraio, e in Abruzzo, a marzo, le urne si apriranno prima delle europee, dunque il risultato sarà tanto più importante perché potrebbe indirizzare almeno in parte anche il voto europeo del 9 giugno.
In Sardegna la scadenza è fondamentale perché qui la candidata, Alessandra Todde, è stata concordata in pieno da Schlein e Conte. E’ la prima vera “candidata comune”, prova del fuoco del campo largo. Va da sé che un risultato insoddisfacente sarebbe un macigno sulla strada che dovrebbe portare alla costruzione di quell’alleanza.
La spiacevole sorpresa è arrivata da uno dei fondatori del Pd, Renato Soru, che ha lasciato il partito e ha deciso di candidarsi contro la Todde: “Il Pd si era dato il compito di unire storiche tradizioni politiche, ma anche di essere una forza di governo, di guida all’interno di una coalizione. In Sardegna ha rinunciato a questo ruolo, ha rinunciato a proporre un nome, che non doveva essere necessariamente il mio”.
Se e quanto la candidatura di Soru possa condizionare il risultato è molto incerto e del resto non è affatto detto che la frattura non si ricomponga. L’ex governatore non chiude tutte le porte a intese future e la diplomazia del Nazareno ce la sta mettendo tutta, con la segretaria personalmente impegnata e attaccata al telefono.
Il problema serio però è rappresentato dalle motivazioni addotte dall’imprenditore sardo per spiegare la sua deflagrante scelta: l’accusa esplicita rivolta a Elly di aver abbandonato la “cultura di governo” del “vecchio” Pd per abbracciare una linea subalterna a quella del M5S. E’ precisamente la linea della minoranza.
Non a caso Guerini commenta la manifestazione di sabato invitando a “guardare a chi in piazza non c’era”. Per quanto la decisione di tutti i capibastone sia quella di imbavagliare ogni polemica fino al 9 giugno, se l’effetto Soru dovesse mandare a monte la scommessa di Schlein e Conte proprio in nome della linea della minoranza Pd conservare l’aplomb e la consegna del silenzio diventerebbe molto difficile.
Anche perché i dubbi della minoranza sono certamente condivisi dai vecchi leader che hanno sostenuto la candidatura Schlein ma che ora hanno sospeso il giudizio proprio in attesa dei responsi delle urne. I 5S, dal canto loro, non hanno alcuna intenzione di avallare la versione di Soru, perché riconoscere che il Pd è ormai molto vicino alle loro posizione significherebbe rischiare un travaso di voti a favore dei papabili alleati.
Quindi non ci si può stupire se Patuanelli attacca: “Si può costruire un’alternativa solo se si è convinti della proposta unitaria. Non ci possiamo dimenticare che se oggi non c’è il salario minimo è per colpa del Pd. Ci sono temi su cui la partita è ancora aperta: l’ambientalismo e la guerra. Per noi è fondamentale non mandare più armi all’Ucraina per avere la pace”. Non sono due temi scelti a caso. Sono proprio i due punti deboli sui quali la segretaria non può prendere una posizione netta senza rischiare di spaccare il partito.
Non è una situazione facile. Il buon esito della manifestazione un po’ aiuta non foss’altro che per l’impatto sul morale del partito. Ma tutti sanno che non può bastare e l’equilibrio tra movimentismo e “governismo” diventerà nei prossimi mesi sempre più precario. Di elezione in elezione, sino all’Armageddon del referendum sulla riforma costituzionale, la segretaria outsider va alla partita decisiva.