Il protocollo anti-migranti
Accordo tra Italia e Albania, è un patto politico contro la Costituzione
Il trattato con Rama dev’essere sottoposto all’approvazione del Parlamento, non lo dicono opinionisti dissidenti ma la Costituzione. Che prevede norme precise per accordi che implicano costi e modifiche delle leggi
Editoriali - di Salvatore Curreri
Più lo si approfondisce, più i dubbi sul Protocollo siglato lo scorso 6 novembre tra il nostro governo e quello albanese aumentano. Tale Protocollo, ricordiamo, prevede essenzialmente la costruzione in Albania di due centri: il primo sulla costa, considerato zona di frontiera, per l’identificazione dei migranti soccorsi in mare solo dalle navi militari italiane; l’altro, nell’entroterra, per la loro prima accoglienza.
L’intento del governo è quello di applicare in tali centri la procedura accelerata di esame ed espulsione introdotta con il cosiddetto decreto Cutro (ma sulla cui legittimità pende il giudizio della Cassazione dopo le sentenze contrarie di molti giudici) che prevede il rimpatrio dei migranti entro 28 giorni sol perché provenienti da Paesi ritenuti per legge “sicuri”.
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Sembrerebbe l’uovo di Colombo: portiamo i migranti in Albania, così ce ne sbarazziamo; insomma, tutto purché non vengano in Italia. In realtà sembra un boomerang perché i problemi che tale “esternalizzazione” solleva sarebbero maggiori di quelli che si vorrebbe risolvere, dal punto di vista sia gestionale che giuridico. Vediamo perché.
Innanzi tutto, la gestione amministrativa, sanitaria ed economica di tali centri spetterà al nostro Paese sulla base delle nostre leggi, mentre l’Albania s’impegna ad assicurare la sicurezza e la sorveglianza al loro esterno. Il che vuol dire maggiori costi organizzativi e gestionali per la trasferta del personale amministrativo.
Inoltre, poiché le controversie saranno soggette “esclusivamente alla giurisdizione italiana” (anche se accade qualcosa nel trasferimento da un centro all’altro in territorio albanese?), ciò potrebbe significare che la commissione territoriale che deve valutare le richieste di asilo dei migranti (alle dipendenze di quale Prefetto?), i loro avvocati e i giudici che dovranno pronunciarsi sugli eventuali ricorsi dovrebbero o trasferirsi in Albania (con costi e problemi legali non indifferenti) oppure operare non in loco ma on line, il che potrebbe incidere non poco sull’effettività del diritto di difesa. Inoltre, si tratterebbe di una soluzione momentanea.
Se la domanda di asilo verrà accolta, il migrante dovrebbe essere trasferito in Italia (dove, nel frattempo, non ha potuto ambientarsi). Se verrà respinta, il migrante dovrà essere rimpatriato (fase che, per le note lungaggini che essa comporta, potrebbe costringere a riportarlo comunque in Italia) oppure essere comunque trasferito “immediatamente fuori dal territorio albanese”, dove però potrebbe rientrare per presentare una nuova domanda di asilo.
Qualora invece entrassero in un altro Stato dell’Ue, non è chiaro se esso potrebbe riconsegnarceli, essendo il nostro il paese di primo ingresso ai sensi del Regolamento di Dublino. Inoltre i migranti sbarcati in Albania non potrebbero chiedere la protezione internazionale (sotto forma di rifugio politico e protezione sussidiaria) prevista dalle fonti dell’Unione europea per la semplice ragione che essa può essere accordata solo se la domanda in tal senso è presentata in uno Stato dell’Unione europea. E l’Albania (ancora) non lo è.
Non a caso dalla Commissione si è subito precisato che “le leggi sull’asilo dell’Ue attualmente in vigore si applicano solo alle domande presentate sul territorio di uno Stato membro, ma non al di fuori di esso” e che non ci sarebbe alcuna violazione del diritto dell’Unione per il semplice motivo che l’intesa tra Italia e Albania si pone al di fuori di esso.
Del resto, è proprio per garantire i diritti dei migranti che il nostro Testo unico sull’immigrazione, anche se non esclude, nemmeno prevede che gli stranieri soccorsi in mare possono essere sbarcati in territorio non italiano. Né si potrebbe aggirare il problema considerando a tal fine i centri in questione zone extraterritoriali italiane perché, come ha chiarito la Corte di giustizia dell’Ue, tali non sono nemmeno le sedi diplomatiche all’estero (7 marzo 2017 x. e x. contro Belgio).
Il che peraltro dimostra che per l’Albania tale accordo potrebbe rivelarsi una “mela avvelenata”. Se, infatti, da un lato essa ha voluto fare un “favore” al nostro paese, nella prospettiva di accelerare la propria adesione all’Ue, dall’altro potrebbe alla lunga invece subire le conseguenze di tale scelta, dal momento che se entrasse nell’Ue potrebbe essere considerata, ai sensi dell’attuale Regolamento di Dublino, paese di primo ingresso per i migranti che verrebbero lì sbarcati, con tutto ciò che ne conseguirebbe, come ben sappiamo, in termini di oneri amministrativi e finanziari.
Tutti questi interrogativi andrebbero sciolti nella sede naturale dove si ratificano i trattati internazionali: il Parlamento. Ed invece, la maggioranza di governo nega che tale protocollo d’intesa vada sottoposto a ratifica del Parlamento sol perché non denominato “trattato internazionale”.
Purtroppo non è la prima volta che il Governo elude la riserva di legge prevista dall’art. 80 Cost. in materia di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, spacciandoli per accordi in forma semplificata o atti di mera esecuzione di trattati già ratificati.
Ma se si va oltre la mera denominazione e se ne approfondisce il contenuto, è evidente che l’accordo in questione rientra pienamente in più d’una delle condizioni previste dall’art. 80 della Costituzione.
Articolo che impone alla Camera di autorizzare con legge la ratifica dei trattati internazionali quando – esattamente come nel caso di tale protocollo – essi sono “di natura politica” (chi potrebbe impunemente negarlo?), importano “oneri alle finanze” (vedi alla voce costi di costruzione e di trasferta per il personale amministrativo) o “modificazioni di leggi” (necessarie per adeguare la legislazione in materia di migranti, a cominciare dai problemi relativi alla giurisdizione).
Per non dire della opportunità politica di discutere di una iniziativa individuale e isolata del Governo, ad insaputa dell’Unione europea, che mira a risolvere in problema dei flussi migratori tramite accordi bilaterali quando invece è noto che esso va risolto in primo luogo a Bruxelles.
Invece un Parlamento già marginale nella produzione legislativa perché ridotto alla conversione dei decreti legge vedrebbe ulteriormente esautorato il proprio ruolo nella determinazione della politica internazionale del nostro Paese dalla scelta del Governo di non sottoporre all’esame parlamentare, per sua natura pubblico e sicuramente più serio e approfondito di un talk show, l’accordo con l’Albania.
Potrebbero le opposizioni costringere il governo a portare il Parlamento l’accordo con l’Albania? Purtroppo no. Per la Corte costituzionale, infatti (ordinanza n. 163/2018) in tali casi a reagire dovrebbero essere non i singoli parlamentari ma la camera di appartenenza.
Quindi, per i giudici costituzionali, dovrebbero essere le forze politiche che sono in maggioranza in Parlamento a contestare l’operato del Governo di cui fanno parte: una evidente assurdità. Anche a causa di tali visioni astratte del diritto si finiscono di fatto per negare i diritti.