La manifestazione trionfa
Salvini ha reso un successo lo sciopero dei sindacati: un successo senza Conte e Schlein
In 60mila a piazza del Popolo, tra striscioni e “Bella Ciao”. La mobilitazione (anche se mancano Schlein e Conte) diventa grazie al leader leghista una sfida al governo. Meloni non ha gradito...
Politica - di David Romoli
La piazza è piena, certamente più di quanto non fosse sei giorni fa quando a piazza del Popolo c’era il Pd. I sindacati dicono “almeno 60mila persone” e in questo caso la cifra è quanto meno molto meno gonfiata del solito. Ma soprattutto le manifestazioni, a Roma e in Italia sono combattive e lo sono davvero.
Merito di Salvini che, con la precettazione, ha modificato e moltiplicato il senso di uno sciopero e a maggior ragione di manifestazioni di piazza che altrimenti, a fronte di una finanziaria comunque poverissima, sarebbero state di ben poco momento. Scoppiano anche due bombe carta, mentre la gente, sulle note dell’immancabile Bella Ciao, sta abbandonando la piazza. Non fanno danni e il responsabile viene subito fermato. Però riflettono una tensione che rischia di impennarsi.
Landini e Bombardieri, sul palco, si dividono i compiti. Il segretario della Uil si occupa soprattutto delle ragioni per cui è stato deciso lo sciopero, attacca la legge di bilancio anche se non si può risparmiare una frecciata rivolta al Precettatore leghista: “Questa piazza è una risposta di democrazia a chi fa il bullo istituzionale”.
Il collega della Cgil invece punta dritto sulla politica ed è lui a evidenziare il nesso appunto politico non solo tra lo specifico di questa legge di bilancio e l’intera visione del governo ma anche con la riforma istituzionale. Le sue sono parole forti, più di quanto non appaia dai toni pur comizianti. Non che risparmi una manovra nella quale “ci sono porcherie” e nella quale “non una delle promesse fatte è stata rispettata”.
Ma il nucleo del discorso arriva quando il leader della Cgil parla apertamente di “vero e proprio attacco alla democrazia” e accusa il governo di “aver messo in discussione il diritto di sciopero”. Il passaggio ulteriore è la riforma: “L’attacco è a 360 gradi. La Costituzione dovrebbero applicarla, non cambiarla. Ma quelli che oggi vogliono cambiarla sono gli stessi che non hanno contribuito a costituirla. Non permetteremo a nessuno di ridurre gli spazi di democrazia”.
L’accusa di revanscismo fascista, di arrembaggio contro la Carta da parte di chi contro la Costituzione era sin dalle origini neofasciste non potrebbe essere più esplicita. I dati sono discordanti, non solo sull’affluenza nelle manifestazioni ma anche sulla riuscita dello sciopero. I sindacati parlano di adesioni altissime soprattutto nei trasporti, il settore ieri di prima linea.
Il ministero di Salvini, il Mit, replica che le adesioni sono state invece minime ma non potrebbe dire altro. Quel che è certo è che in piazza mancano due volti notissimi: quello di Elly Schlein e quello di Giuseppe Conte.
Assenze sorprendenti, non solo perché entrambi avevano invece partecipato a manifestazioni sindacali di importanza ben inferiore, ma soprattutto perché lo sciopero è stato convocato precisamente a partire dalle medesime critiche alla legge di bilancio che i loro partiti ripetono in Parlamento.
I due sono stati incerti sino all’ultimo ed è probabile che, senza l’affondo di Salvini, la decisione sarebbe stata opposta. Ora invece ha probabilmente prevalso il timore di apparire proprio come li descrive la propaganda della destra: leader di paglia, luogotenenti del vero capo, Maurizio Landini, figure di sfondo in una piazza e in una manifestazione in cui a dettare la linea politica è il capo della Cgil.
Forse però hanno pesato anche altre considerazioni, probabilmente condivise dallo stesso leader della Cgil. Proprio perché lo sciopero ha assunto un carattere decisamente politico, bisognava evitare che suonasse come un mero e pregiudiziale supporto del sindacato all’opposizione. Non a caso è proprio questa, tra le righe, l’accusa che lancia da Zagabria Giorgia Meloni: “Lo sciopero è stato deciso in estate, quando io la manovra non la avevo neppure pensata”.
La premier, per l’ennesima volta, prova a derubricare e sminuire l’intemerata del suo vicepremier presentandola quasi come un obbligo formale: “Non ho deciso io, che dei diritti dei lavoratori ho grande rispetto. Un’autorità indipendente ha detto che non c’erano i requisiti per poter parlare di sciopero generale”.
La preoccupazione palese della premier non riguarda solo il rischio di un’impennata della conflittualità sociale grazie alla bravata del leghista, che rincara ogni giorno: “Il diritto allo sciopero di una minoranza non può pregiudicare il diritto al lavoro della maggioranza. Sono orgoglioso perché 20 milioni di italiani oggi possono muoversi liberamente”.
All’orizzonte c’è una minaccia molto più temuta: quella che il referendum sulla riforma diventi un pronunciamento generale sull’intera visione di democrazia autoritaria della destra. È il contrario della sfida circoscritta alla “possibilità del popolo e non dei partiti di decidere il governo” su cui immaginava di puntare lei. Ma il danno, dal suo punto di vista, è fatto e non è riparabile.