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Sudanesi maltrattati, la Cedu condanna l’Italia

diritti migranti

Ventimiglia, agosto 2016. In giro per la città ci sono molti migranti in attesa di riuscire a passare la frontiera per andare in Francia, alcuni di loro vengono dal Sudan.

Tra Italia e Sudan c’è un memorandum fresco fresco, firmato il 2 agosto, governo Renzi, tra il capo della polizia italiana Franco Gabrielli e il suo omologo sudanese Al Hussein (un accordo tra polizie, un accordo mai passato in Parlamento) che prevede tra l’altro il rimpatrio di migranti sudanesi.

A metà agosto agenti di polizia vanno cercando per Ventimiglia sudanesi da rimpatriare. Entrano anche nel Centro di soccorso della Croce rossa. Ne trovano cinquanta, tutti maschi. Li prendono e li portano in commissariato.

Le vicende accadute dopo questo momento sono oggetto di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo – firmato dagli avvocati Donatella Bava, Nicoletta Masuelli e Gianluca Vitale – che giovedì ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante inflitto a quelle persone.

Cosa è accaduto in commissariato?
Sono stati fatti spogliare nudi e lasciati in questa condizione una decina di minuti, poi caricati su un autobus con destinazione ignota. Fino a Taranto. Loro in quel momento non sanno dove li stanno portando né cosa sta accadendo. Sanno soltanto che sono stati catturati. Nel viaggio hanno pochissima acqua a disposizione, si muore di caldo. Chi durante il viaggio ha bisogno di andare in bagno viene portato da due agenti nei wc e costretto ad espletare i suoi bisogni a porta aperta davanti a loro che lo guardano a vista. Arrivati a Taranto vengono messi tutti sotto in un tendone, le condizioni sono sempre quelle: poca acqua e in bagno soltanto a porta aperta. Dopo almeno quattro giorni dalla loro cattura (per qualcuno i giorni sono cinque, per qualcuno sei) vedono finalmente vedono un giudice, alla presenza di un interprete che però non capiscono e l’interprete non capisce loro perché parla arabo classico che non è la lingua parlata in Sudan. Viene consegnato a ognuno di loro un decreto di respingimento. Li fanno risalire tutti su un autobus per destinazione ignota e li portano a Torino all’aeroporto di Caselle. Lo scopo è caricarli su un aereo per spedirli in Sudan ma non c’è posto per tutti. li dividono del tutto arbitrariamente in due gruppi, tu di qua e tu di là. Due di quelli che stanno per essere imbarcati a forza sull’aereo si ribellano. Vengono picchiati. Uno dei due malmenati è uno dei ricorrenti, la sentenza della Corte europea ha un punto specifico su quest’episodio di botte. Quelli che restano a terra, 9 persone, si sentono dire: appena troviamo il volo vi mandiamo in Sudan. Intanto vengono portati al Cpr di Torino. Al Cpr c’è una nuova convalida, vedono un giudice e finalmente ognuno di loro dice: non voglio tornare in Sudan perché se torno rischio di essere ucciso. A quel punto si riesce a far partire la procedura di richiesta di protezione internazionale che viene accettata e non potrebbe esser altrimenti essendo loro sudanesi e nel giro di un mese e mezzo tutti escono con il riconoscimento dello status di rifugiato. Alcuni di quelli rimasti fanno ricorso alla Corte”.

Cosa avete contestato esattamente?
La violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, il divieto di tortura e di trattamenti degradanti, sotto due profili: quello specifico riguardante il ragazzo picchiato e l’altro che riguarda tutti i ricorrenti, lui compreso, per le condizioni in cui sono stati trattati dal rastrellamento fino all’arrivo a Torino. Con in più come elemento ulteriormente afflittivo il fatto di essere stati catturati e portati via in stato di patimento e di ansia senza sapere assolutamente nulla. Il secondo profilo per il quale è stata condannata l’Italia è attinente alla questione della libertà personale perché la Corte accerta che c’è stata, almeno fino alla prima udienza di convalida a Taranto, una privazione di libertà personale priva di titolo alcuno perché non era stato notificato nulla. Significativo anche il fatto che il provvedimento di respingimento era stato adottato a Taranto: tutto quel che è successo prima è avvenuto del tutto arbitrariamente sulla base di nulla. Questo rientra nella costruzione del meccanismo degli hotspot che allora era pure privo di base giuridica e che ora continua a funzionare in modo del tutto distorto. La Corte ha riconosciuto che in Italia c’è un problema gravissimo riguardo alla privazione della libertà personale.

Quali conseguenze concrete ha la sentenza, a parte un risarcimento in denaro dei ricorrenti?
La sentenza della Corte è sentenza individuale, non ha conseguenze immediate sullo Stato. Ci sono state sentenze della Corte che hanno costretto l’Italia a modificare la normativa, per esempio la legge Pinto sulla durata dei processi è un conseguenza di una sentenza della Corte, la possibilità di avere risarcimenti per condizioni carcerarie è la conseguenze di sentenze della Corte europea. In questo caso c’è già nella sentenza la condanna allo Stato a pagare tra 8mila e 10mila euro a ciascuno dei ricorrenti per il trattamento subìto. Nel momento in cui la Corte dice che prendere una persona e portarla a forza altrove senza provvedimento di restrizione della libertà personale è violazione di un diritto costringe lo stato italiano a porsi un problema di compatibilità.

E se l’Italia non provvede?
Lo Stato ha il dovere di adeguarsi alla normativa europea così come interpretata dalla Corte europea. Se non lo fa, arriverà prima o poi una seconda sentenza, una terza, una quarta e sarà in qualche modo costretto a farlo, non c’è un meccanismo di cogenza particolare, ma non facendolo l’Italia si pone fuori dal quadro segnato dalla Corte.

Sarebbe possibile per uno dei naufraghi soccorsi da una nave poi ostacolata dall’applicazione del decreto Piantedosi nel portarli rapidamente in un porto sicuro, ricorrere alla Corte europea e attivare lo stesso meccanismo?
Sì, è possibile, l’unico limite è che alla Corte europea puoi ricorrere soltanto dopo aver esperito tutti in gradi interni di ricorso in Italia. In questo caso siamo riusciti a dimostrare che non c’era nessuna possibilità di ricorso interno e quindi nessun modo per porre rimedio a quel che era successo. Bisogna capire se il singolo naufrago ha subito lui una violazione di una norma della disposizione europea. Già soltanto l’assegnazione del porto sicuro lontano è una violazione del suo diritto, perché se ti ripescano nel canale di Sicilia invece di mandarti a Lampedusa ti mandano a Livorno ti costringono a stare in condizioni pericolose per la tua salute per giorni ulteriori di navigazione. Sicuramente per le navi quarantena che abbiamo visto in passato questa possibilità di ricorso c’è. Alla fine è sempre il trattamento inumano e degradante che può rilevare se non, in più, la privazione della libertà personale senza titolo. Le navi quarantena erano sicuramente luoghi di privazione della libertà personale.