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Lezioni di stabilità per Giorgia Meloni, la premier che non ha capito il premierato

Il premierato di Giorgia Meloni

Il premierato di Giorgia Meloni

Nel messaggio social confezionato per attaccare senza più remore la Costituzione e lanciare la discesa verso la “Terza Repubblica”, la premier mostra di avere una conoscenza delle forme di governo che è paragonabile solo alla sua capacità di individuare celermente l’identità di qualche fantomatico leader africano.

Seguendo una comparazione sviluppata a maglie alquanto larghe, che mescola confusamente sistemi presidenziali, semipresidenziali e parlamentari, Meloni imputa al testo costituzionale la responsabilità dell’ingovernabilità e, di riflesso, anche la colpa del vistoso collasso economico italiano.

Se nel governo dell’economia la statista del Torrino fa cilecca, davanti al calo dei consumi e alla sostanziale recessione indotta anche dalle sue politiche sbagliate, è invece nell’impennata della decretazione che incassa cifre da record, nel segno di una caduta dell’ordine politico in un vortice autocratico. La sua media di scrittura dei decreti si attesta infatti a 3,7 esemplari al mese, con una fabbrica di atti normativi che ha già sfornato 47 provvedimenti, non tutti propriamente dettati dai requisiti della “necessità ed urgenza”.

Un esecutivo che di fatto legifera su ogni aspetto, attraverso decreti a pioggia, rivendica anche una ulteriore garanzia di stabilità con il pastrocchio del premierato assoluto, che trafigge i flebili poteri di indirizzo e controllo della rappresentanza. Secondo Meloni, se la Francia e la Germania hanno registrato negli ultimi vent’anni una crescita della ricchezza cinque volte superiore a quella dell’Italia, il merito è principalmente del loro assetto istituzionale.

Non conterebbero quasi nulla, in questa sua fantasiosa classifica del rendimento economico, la quantità di forza lavoro (soprattutto femminile) occupata, la percentuale di piccola e media impresa operante sul mercato rispetto alla quota delle grandi industrie, la diffusione del lavoro autonomo e il grado di evasione fiscale, il livello di istruzione universitaria, il funzionamento della pubblica amministrazione e i tempi della giustizia civile.

Quando asserisce che la ragione della congenita instabilità italiana, e dunque l’origine della lunga stagnazione dell’economia, chiama in causa anzitutto “la base del sistema, cioè la Costituzione”, Meloni procede alla rinfusa e sparge il carico di accanimento ideologico covato in chi odia nel profondo gli stanchi riti dialogici che si svolgono nell’Aula sorda e grigia.

L’argomentazione della presidente del Consiglio, secondo cui la Legge fondamentale deve essere manipolata perché va ritenuta, essendo “l’unica cosa che non è mai cambiata” nel corso dei decenni, come la radice del declino, non regge minimamente. Ci sono state, alla faccia dell’immobilismo istituzionale, e al di là dell’infinità di riforme elettorali, frequenti manutenzioni costituzionali le quali hanno minato, ad esempio con il nuovo Titolo Quinto, la coerenza dell’ordinamento repubblicano.

Quando Meloni si lamenta poiché nel ventennio trascorso l’Italia ha accumulato 9 presidenti del Consiglio (al vertice di 11 governi), mentre la Francia ha ospitato all’Eliseo solamente 4 inquilini, non si rende neppure conto che da ambiziosa madre costituente sta ricorrendo ad un parallelismo improprio.

Il presidente del Consiglio italiano, investito dal voto di fiducia delle Camere, e il presidente della Repubblica francese, eletto a suffragio universale diretto, appartengono infatti a due forme di governo con un impianto molto differente.

L’unico confronto, forzato per via della posizione eterogenea rivestita nel modello di governo ma legittimo entro certi limiti, sarebbe quello tra presidente del Consiglio e primo ministro, in quanto si tratta di organi con facoltà diverse che nondimeno hanno la medesima matrice parlamentare.

Sotto questo profilo, al cospetto dei 9 presidenti italiani, dal 2003 la Francia ha incoronato lo stesso numero di “Premier ministre”, mentre in Inghilterra 7 sono stati i “prime minister”. In più, e la circostanza dovrebbe insospettire gli appunti di Giorgia, a Parigi si sono susseguiti ben 16 governi (5 in più di quelli romani).

In vetta alla graduatoria della stabilità, presentata da Meloni per giustificare la necessità che le sue mani taglienti incidano sulla seconda parte della Carta, si trova la Germania che, con appena 3 cancellieri in scena lungo vent’anni di storia (con la successione di soli 6 gabinetti), vanta gli indicatori migliori in termini di governabilità.

Tanto per restare ai freddi dati, la destra radicale al potere dovrebbe considerare che anche in Spagna la carica di “Presidente del Gobierno” dal 2004 ad oggi ha visto soltanto tre occupanti, alla guida di 6 governi di coalizione. Il primato, quanto a durata degli esecutivi, spetta dunque a due sistemi parlamentari, e retti addirittura con la maledetta formula proporzionale.

Il chiacchiericcio antipolitico di Giorgia Meloni (“i cittadini” sono da lei scagliati contro “i partiti” secondo uno schematismo tipico del populismo) non è degno di una statista, sia pure immersa in una poco incoraggiante fase di apprendistato.

Il velo della propaganda le impedisce di cogliere che i regimi più stabili d’Europa (e del mondo democratico, ad eccezione del caso americano) sono proprio quelli in cui i poteri sono organizzati secondo gli stampini del vetusto governo parlamentare.

Invece di sfasciare l’ordinamento, per puro astio verso la Costituzione, la destra farebbe bene a prendere, a suo piacimento, le regole, le procedure (in primo luogo, il salvifico istituto della sfiducia costruttiva), le tecniche elettorali e le competenze conferite al governo e al suo capo in Spagna o in Germania.

In Parlamento, una simile riforma di sistema, che si adagia in maniera del tutto coerente ed incrementale sulle forme vigenti, non incontrerebbe la resistenza del maltrattato “conservatorismo istituzionale” e con buone probabilità passerebbe, se non all’unanimità, a larghissima maggioranza.

Ma la destra non farà alcuna revisione razionale e compatibile con la Carta del 1948, semplicemente perché la sua natura politico-culturale è di tipo revanscista. Quindi per scelta mira alla ostentata cesura storica, non volendo in alcun modo assicurare la governabilità, la stabilità, l’efficienza della democrazia costituzionale.

Con le sue grandi trame il governo intende scavare le condizioni più favorevoli allo spirito d’avventura per archiviare definitivamente la Costituzione repubblicana, percepita come geneticamente estranea dai nostalgici della fiamma. Non può promettere al “popolo” la restituzione della “integrale sovranità” e poi restringere in toto la legittimità del presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini, costringendo quest’ultimo al passaggio cruciale della fiducia parlamentare.

La sovranità come tale non può avere due teste, o è mediata dalle forme del Parlamento, che vota la fiducia e dà quindi il lasciapassare al premier, o è incarnata dal popolo, il quale, una volta che con la sua “vox” si è pronunciato nelle urne, non autorizza l’intervento di un potere suppletivo-correttivo che a discrezione manovra nell’Aula.

La più assurda previsione del disegno Meloni è proprio quella che concede il 55% dei seggi ad un compatto esercito personale a seguito del premier, per poi attribuire agli stessi deputati, trascinati dal capo-coalizione, la pistola fumante con la quale i parlamentari possono minacciare la sopravvivenza del leader che li ha appena nominati in liste bloccate.

Più che di una collezione sterminata di angeli o di una esibizione “lungo tutto il globo terraqueo” di appariscenti abiti firmati, almeno per orientarsi con maggiore giudizio nel ginepraio delle riforme costituzionali ed elettorali, Meloni avrebbe bisogno di una qualche rapida infarinatura di politica comparata, di diritto costituzionale.