La guerra di Gaza e gli Usa

Intervista ad Alexander Stille: “L’America non ama Netanyahu. Ci sono nomi più forti di Biden”

Ci sono candidati democratici alternativi a Biden? Sì, certo, per esempio la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer e il governatore della California Gavin Newsom

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 21 Novembre 2023

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Il professore e scrittore Alexander Stille
Il professore e scrittore Alexander Stille

La guerra di Gaza vista dall’America. Tra i Dem Usa crescono le critiche verso il presidente Biden per il suo essere troppo filo-Israele. . L’Unità ne discute con Alexander Stille. Giornalista e scrittore statunitense, Stille collabora con prestigiose testate come The New Yorker e The New York Times, e insegna giornalismo alla Columbia University. È di origini italiane. Suo padre Ugo (Misha), ebreo nato a Mosca, arrivò in Italia da bambino e fuggì negli Stati Uniti nel 1941 per sfuggire alle leggi razziali. Poi tornò in Italia, alla fine degli anni 80, per dirigere il “Corriere della Sera”.

Professor Stille, l’”11 Settembre” d’Israele, la mattanza di Gaza. Come ha vissuto dall’America questa tragedia mediorientale?
Con dolore, angoscia e preoccupazione. Sono stato investito da una serie di pensieri pessimisti, alcuni da incubo. La tragedia in Israele e a Gaza potrebbe avere effetti multipli. La morte di decine di migliaia di palestinesi, una Israele meno sicura, Democratici spaccati e Trump rieletto, l’Ucraina alle prese con un Putin rinforzato. Tutto questo è in gioco.

Soffermiamoci sui Democratici americani e sulle reazioni agli eventi mediorientali.
La spaccatura dei Democratici è assolutamente reale. Biden, coerente con la tradizionale politica americana nei confronti d’Israele, ha sentito la necessità di offrire un appoggio totale a Israele in un momento di orrore, di lutto, dopo i massacri commessi da Hamas il 7 ottobre. Senza lasciare un qualche spazio di manovra per una correzione di rotta. L’impressione di molti dentro il Partito democratico, ai vertici come alla base, è che Biden abbia “firmato” un assegno in bianco a Netanyahu, a colui che è responsabile in parte della tragedia che stiamo vivendo. Netanyahu da 25 anni fa finta di negoziare la pace mentre dà luce verde agli insediamenti e offre copertura politica ai coloni armati nei Territori occupati. In questo modo, con questa politica, Netanyahu ha finito per rafforzare Hamas e indebolire l’Autorità Palestinese, la qualcosa è uno dei fattori che hanno portato alla tragedia del 7 ottobre e a ciò che ha scatenato.

E gli Usa?
Gli Stati Uniti, a mio avviso, dovrebbero operare una correzione di rotta in questa politica. Ma in questo momento di empatia compassionevole, Biden ha finito per non lasciarsi molto spazio per una politica più equilibrata, il che lo ha portato, gioco forza, ad “abbracciare” quel Netanyahu che aveva sostenuto Putin, trattato con dispetto Obama e lo stesso Biden, abbracciato platealmente la causa di Trump e riempito il suo governo di ministri razzisti per non dire, come alcuni di loro meritano, fascisti.

Da un recente sondaggio Gallup emerge che la causa palestinese è molto sentita, e supera il sostegno a Israele, tra i Millennials. In queste settimane manifestazioni pro-Palestina si sono avute in diverse e prestigiose università americane. Cosa può dire in proposito?
Per i giovani la Shoah sembra storia antica. Una cosa di cui hanno parlato semmai i nonni, i bisnonni. Quella storia, che in qualche modo aiuta a capire il senso di pericolo esistenziale che avvertono ancora oggi gli israeliani, risulta essere per loro una cosa molto lontana. Invece vedono, e non completamente a torto, una situazione di iniquità tra gli israeliani ebrei e israeliani arabi, e in più una situazione di totale iniquità per i palestinesi, che vivono ormai da oltre mezzo secolo nei territori occupati da Israele, sia nella West Bank, in balìa dei coloni, sia nella Striscia di Gaza sotto assedio da vent’anni. I 1200 israeliani, la maggioranza dei quali giovani, massacrati da Hamas il 7 ottobre, hanno avuto visibilità sui media, un volto, una storia, a differenza degli oltre 10mila palestinesi morti a Gaza, rimasi anonimi, ridotti a un numero. Questa almeno è la percezione che si è avuta anche nella università in cui insegno. La loro è stata in qualche modo una reazione a quella che hanno giudicato, a torto o a ragione, una inaccettabile politica dei due pesi e due misure.

Storicamente, l’elettorato ebraico è più vicino ai Democratici che ai Repubblicani. Ma questi segnali d’insofferenza che vengono dall’interno dei Dem, soprattutto tra i giovani, non è anche un segnale di crescente criticità nel rapporto tra la diaspora ebraica, quanto meno delle sue componenti progressiste e chi governa oggi Israele?
C’è stato un processo lungo, a partire dagli ultimi decenni del ‘900, nel quale la comunità ebraica americana si sentiva vicina a Israele e considerava Israele il rifugio degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Ma negli ultimi vent’anni, nel “regno” di Netanyahu, la comunità ebraica americana, più o meno di centrosinistra, si è andata sempre più staccando e ha perso fede nel governo israeliano, un governo di destra del tutto insensibile e ostile ai diritti e ai bisogni dei palestinesi, totalmente disinteressato al processo di pace.

Il 7 ottobre non ha cambiato le cose?
Il 7 ottobre per qualche giorno ha cambiato quel senso di distacco emotivo da Israele e dal suo governo. Gli israeliani erano sotto una minaccia esistenziale reale e dunque bisognava mostrare solidarietà anche nei confronti di un governo che non piaceva.

E poi cosa è accaduto?
Con gli attacchi a Gaza, si è fatta largo la sensazione che Netanyahu stava utilizzando questa crisi per salvarsi politicamente la pelle. Una parte della comunità ebraica americana sta ora cercando di vedere dove si sta andando. Cresce una volontà, una voglia, non so quanto realistica, di una terza via tra un appoggio incondizionato a Israele e un distacco totale. Da qui la richiesta di un cessate il fuoco, un negoziato per la liberazione degli ostaggi presi da Hamas, aiuti umanitari ai civili di Gaza, rimasti senza luce, gas in una situazione umanitaria tragica.

Quanto può pesare quello che sta avvenendo in Medioriente in prospettiva delle elezioni presidenziali Usa del 2024? Ci sono sondaggi che danno Biden in forte difficoltà.
Effettivamente per i Democratici è una situazione estremamente preoccupante. Negli States abbiamo un sistema elettorale molto strano, unico nel mondo democratico, in cui la vittoria non va a chi ha più voti su scala nazionale ma secondo i singoli stati. Biden nel 2020 ha vinto con quasi 7 milioni in più di voti rispetto a Trump, ma si è imposto nel collegio elettorale, che è quello che decide chi sarà presidente, con 44mila voti in cinque stati, un margine molto limitato. Questo fa sì che piccoli spostamenti del voto possono determinare il risultato delle elezioni, come abbiamo visto nel 2000, quando Gore aveva vinto con mezzo milione di voti di vantaggio nel voto popolare, finendo per perdere la presidenza per 300 voti in Florida. Per cui se i giovani in tre o quattro stati chiave decidono di non votare, o di votare per un candidato di un terzo partito, come Cornel West, un professore universitario che ha annunciato di volersi candidare, o il Green Party che con Jill Stine ha preso l’1 per cento dei voti nel 2016 e intende ricandidarsi pure lui, se qualcuno di questi candidati prende ventimila voti in un paio di stati chiave, ciò può cambiare l’esito delle elezioni

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Se non è Joe Biden, i Dem avrebbero un candidato forte in alternativa al presidente in carica?
Ci sono delle persone nel partito che potrebbero diventare candidati forti se avessero la possibilità di passare un po’ di tempo sul palcoscenico nazionale. Persone conosciute nei loro stati ma che sono relativamente ignote per la maggioranza degli americani. Penso, ad esempio, alla governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer, Un governatore donna, molto popolare, che ha vinto nel suo stato con una forte maggioranza, con i suoi 52 anni molto più giovane di Biden. Un altro candidato potenzialmente forte è il governatore della California, Gavin Newsom, 56 anni, una persona che nutre ambizioni nazionali. E altre ancora. Sono persone potenzialmente forti ma che andrebbero verificate prima di un loro eventuale lancio nazionale, per capire quali sono i loro limiti, i loro punti deboli e quelli invece su cui puntare. Tutto è appeso alla decisione di Biden.

21 Novembre 2023

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