Caccia allo straniero/1
Xenofobia di ieri e oggi: così la destra crea mostri
Dalla Roma imperiale ai pogrom del 900, le dinamiche della battaglia contro lo straniero sono sempre identiche: sono il capro espiatorio di società in crisi
Editoriali - di Mario Marazziti
Basterebbe poco. Almeno avanzare un dubbio verso le narrazioni che descrivono i profughi del mondo come la causa dei nostri disagi e dei nostri mali, per cominciare a fare le cose normali.
Le cose giuste, per il bene comune, per gli italiani per davvero e, insieme, per chi viene chiamato “clandestino” ma che non lo è visto che si prendono subito le fotografie, le impronte e quant’altro. Ma è una storia e una tentazione antica, che si ripete nel tempo. È la politica del “capro espiatorio”.
Vale anche a livello individuale, non solo dei governi: il peccato, le proprie difficoltà, le sconfitte sono colpa di un altro e raramente nostra, sono, invece, di chi viene da fuori. È una cattiva abitudine molto antica, sta sepolta dentro le culture e dentro di noi. E riemerge quando c’è chi vuole farla riemergere, nei tempi di incertezza.
Di politica di “capri espiatori” si muore. Si muore dentro, anzitutto. Poi, con gradazioni e intensità diverse, muoiono gli altri. E le società. E chi siamo. Si sacrificava un bue alla divinità nell’antico Egitto per trasferire sulla testa tagliata tutte le maledizioni (Erodoto II,39). Nel giorno dell’espiazione, il kippur ebraico, il capro sacrificato dal sacerdote veniva caricato di tutti i peccati del popolo (Levitico 16, 5-22).
Ma questo non era “contro” gli altri. Nei momenti di difficoltà, come mostrano gli scavi archeologici sul colle Palatino, dove la città di Roma è nata, tracce di sacrifici umani legati raccontano di vittime sacrificate durante la fondazione della città di Roma, o, più verosimilmente, i sacrifici umani del 226 a.C. , quando Roma era in serie difficoltà a causa della minaccia dei Galli: in quel caso, consultati i Libri Sibillini nel Foro Boario, vennero sepolte vive due coppie di prigionieri di sesso diverso, una greca e una gallica, probabilmente per esorcizzare il pericolo incombente da Nord (i Galli) e da sud (i Greci). Cosa ripetuta dopo la sconfitta di Canne da parte di Annibale.
Coppie simboliche, non stragi generalizzate. Ma tutte le culture hanno definito in maniera netta il confine tra “noi” e “loro”: tanto quelle prima della scrittura (“primitive”) che quelle che la scrittura l’hanno scoperta e diffusa nei millenni successivi, e con essa hanno codificato le diverse lingue e le hanno messe in comunicazione con gli alfabeti. Claude Lévi-Strauss, l’antropologia strutturale, l’hanno documentato a livello planetario: in ogni comunità, popolo, tribù, sono esistite parole per definire gli altri, quelli di fuori. E si tratta sempre di sinonimi di “non persona”.
Le persone, gli umani-umani sono, in tutte le culture antiche, quelli dentro il recinto, dentro le mura. Addirittura non lo sono sempre tutte, in alcune non lo sono i bambini, in altre, quelle patriarcali, non lo sono le donne. Le parole usate sono le più diverse, ma convergenti: “insetti”, “parassiti”, “belve”, in sintesi, “non umani”.
In epoca moderna sono le parole che Himmler amava usare e diffondere a proposito degli ebrei e che hanno preparato e prodotto la Shoah, spostando il nemico da esterno a interno: “parassiti”, “batteri”, “come quelli della Tbc che possono infettare un corpo sano”. Lo ha fatto qualche giorno fa Donald Trump, chiamando “vermin”, parassiti, da estirpare dalle radici (“we will root out”) “i Comunisti, i Marxisti, i Fascisti, i Teppisti della sinistra radicale che vivono come vermin nei confini del nostro Paese”.
Ma il paradigma è lo stesso: quei “vermin” sono estranei, erba cattiva velenosa travestita da nostri concittadini, come lo sono quelli che vengono da fuori. Le classi dirigenti in difficoltà non hanno esitato, in periodi diversi della storia, a favorire “pogrom”, devastazione, distruzione, di intere minoranze in tempi di difficoltà interne, per spostare da sé stesse alle vittime di turno il rancore popolare.
I pogrom contro gli ebrei in Russia, motivati da ragioni economiche, i debiti non pagati, e mascherati da motivi religiosi dopo l’attentato allo zar Alessandro II non sono stati i primi. E non sono stati gli ultimi. Il massacro di Granada, con lo sterminio di 1500 famiglie ebree è del 1066.
La rivolta di Chmel’nyc’kyi tra il 1648 e il 1657, ha lasciato sul terreno 100mila ebrei. Il Novecento si è aperto con i pogrom di Chisinau nel 1903, con le stragi di polacchi e ucraini durante la guerra civile seguita alla rivoluzione bolscevica, nel 1919-1921, cui si deve una massiccia emigrazione di ebrei verso la Palestina e gli Stati Uniti d’America.
E, con altri nomi, si potrebbe continuare, prima dei nazisti, con il genocidio armeno, con le guerre greco-turche con stragi di turchi e di greci, fino alla scomparsa della convivenza greco-turca e curda e alla fine del cosmopolitismo dell’Asia minore e di Istanbul.
Le guerre balcaniche in nome di una purezza impossibile, che per semplificare le differenze si sono mosse lungo linee religiose, le esplosioni di violenza nella penisola indiana, nell’Asia centrale e in Afghanistan, hanno fatto ricorso e utilizzano la stessa operazione mentale e politica: “senza gli estranei saremo più sicuri e più felici” è l’imbroglio venduto dalle classi dirigenti, in tutte le epoche.
Il mondo, nella lotta allo “straniero” si è mosso – seguiamo ancora Lévi-Strauss, ma anche Baumann – su due linee. L’antropofagia, che mangia, “divora” gli estranei, metabolizzandoli e li trasforma in una sostanza indistinguibile dalla propria. Non si mangiano più le persone, ma le loro differenze: un cannibalismo culturale teso all’omologazione delle differenze interumane.
Detto con termini meno spaventosi, è l’integrazione-assimilazione. Alessandro Severo, imperatore romano, era siriano, Obama, come Lincoln e George Washington, è stato presidente degli Stati Uniti. Ma vale per ognuno di noi, ogni italiano che dentro ha pezzi di normanni, greci, bruzi, sanniti, longobardi, americani: e vallo a capire. Così sono cresciute, e bene, le nostre società, e sono nate le democrazie, un punto di arrivo positivo nella storia dell’umanità.
La seconda linea che attraversa la storia è quella antropoemica, che “vomita” (emèo), espelle l’altro. “Rigetta” gli stranieri escludendoli dal contatto con i legittimi abitanti del mondo che conta. Straniero (con una eccezione di rilievo: se lo straniero è ricco, la ricchezza supera tutte le differenze, non è più “straniero”, come il Qatar che compra il Paris Saint Germain, i sauditi che possiedono pezzi importanti d’America) è, così, sinonimo di “estraneo”, e viene tenuto fuori, oppure imprigionato, ghettizzato, ovvero viene eliminato fisicamente.
Per la visione ordinatrice dello Stato e dell’ideologia nazional-razzista, l’estraneità non si estirpa né si evolve. E diventa tanto più pericolosa quanto più i caratteri di differenza esteriore svaniscono. Alla fine gli estranei si possono solo eliminare, assieme alle loro strane, paurose e pericolose peculiarità. Cominciando dai più riconoscibili, se il colore della pelle è diverso, se il genere è diverso, via via, fino agli stili di vita. In Italia e in Europa in fondo a tutte le classifiche del disprezzo immancabilmente, un gradino sotto a tutti, sono i rom: vincono sempre.
Anche gli ebrei e i neri stanno un gradino più su, in genere, in tempi normali. La soluzione antropoemica è semplice: bisogna distruggere il caos al fine di costruire l’ordine in una impossibile “purezza” monocolore e monocorde. Lo straniero è dannoso, con lui non c’è possibilità d’instaurare un modo di conviverci.
È impraticabile senza la fine della democrazia, senza genocidi generalizzati, senza smettere di essere noi stessi. Chi la cavalca si illude, forse, di riprendere il mostro quando è stato fatto uscire dalla gabbia. Ma finora non c’è mai riuscito nessuno, come con le guerre. Tutte vendute come “lampo” e brevi e limitate e tutte eternizzate e con conseguenze anche lontano migliaia di chilometri.
All’inizio del ‘900 gli europei, 425 milioni, erano un quarto degli abitanti del mondo, 1 su 4. Oggi c’è meno di un europeo ogni 15 abitanti del pianeta. E saranno sempre di meno. La globalizzazione – e il declino dell’Europa, che nel frattempo ha anche smesso di popolare, prendersi, colonizzare e riempire di immigrati europei gli altri continenti – ha rilanciato l’antropoemica, che si esprime attraverso i nuovi sovranismi.
E questa si diffonde anche con la forza complottista di QAnon, con mitiche negazioniste e favole moderne che non hanno bisogno di essere dimostrate. Fioriscono così le teorie sulla “sostituzione etnica” e sull’”invasione”, che non hanno bisogno di essere vere: si fanno politiche, discorso pubblico, banalizzazione dell’altro, discorsi da bar, consenso elettorale attivo o passivo, a qualunque livello vengano enunciate.
Così diventa quasi impossibile che il governo faccia davvero gli interessi degli italiani e degli europei, perché non ci si mette contro l’irrazionalità, se ne diventa parte, l’opposizione stessa diventa subalterna. Alla fine, cioè oggi, visioni deformate producono soluzioni deformi. Anche se, tutti diversi, saremmo tutti parenti, fuori casa e anche dentro casa.
(Fine prima parte – continua)