Il mito di Kennedy
Il kennedismo triste in salsa italiana, da Veltroni a Malagò il mito di JFK nella nostra politica
Nell’immaginario collettivo nazionale pop segnato dal ricordo della polarizzazione comunisti-democristiani, JFK vive soprattutto nei fotogrammi del suo assassinio a Dallas,
Editoriali - di Fulvio Abbate
Il passo, il profilo, la leggenda stessa di John Fitzgerald Kennedy, dunque dell’intera avventura kennediana come stile e prospettiva politici, a dispetto dei molti souvenir presenti con cura devozionale nei corridoi delle nostre case popolari, magari accanto al volto di papa Giovanni, la veduta del campanile che sbuca dal Lago di Resia e al calendario della torrefazione, in verità non ha mai davvero avuto pienamente corso tra noi; qui in Italia, intendo.
Per una tale elegante e impeccabile prospettiva, nello Stivale, è mancato sia il fiato sia l’attitudine, forse ancor di più il censo, gli agi acquisiti da generazioni. Dunque un modello inarrivabile per uno strapaese di assessori con villino dalle superfetazioni orgogliosamente abusive, concepite come unico sfarzo.
Possibili imitatori invece, quelli sì, li abbiamo visti, peccato per loro, e forse anche per il bene stesso di tutti, che non abbiano molto a lungo brillato nel contesto, diciamo pure, occasionale, politico-spettacolare nonostante l’impegno e la volontà di accreditarsi come tali. Citati perfino in ambito satirico televisivo nel “Pippo Chennedy Show” di Corrado Guzzanti.
Kennediani anche nella postura, nel colletto “button down” della camicia, nel modo di strizzare l’occhio e stringere la mano all’elettore potenziale, o addirittura al momento del taglio del nastro tricolore di nuove superstrade o fiere campionarie, poco importa se agricole o pienamente industriali.
Il retrogusto di piccola borghesia che segna sempre il nostro ceto ha reso impossibile che il modello desiderato originale d’Oltreoceano a stelle e strisce fosse pienamente raggiunto. Senza contare che il proposito appare impossibile in assenza di una autentica anima liberale, anzi, in questo caso ulteriore, “liberal”. Il peso catto-comunista a limitarne lo sprint.
Certo, qualcuno ci ha provato, e segnatamente “a sinistra”, ritrovandosi osservato dai cinici che nel Belpaese dell’abate Stoppani presente in effigie sul formaggio omonimo mai mancano, forti di una subcultura propria segnata da scetticismo meridionale profondo, dunque alla fine modesti imitatori, poco credibili; semplici cosplayer, diremmo oggi: di JFK e del fratello “Bob”, figure accompagnate dall’aura di giovani vittime, l’ombra dell’assassinio a mostrare un “sogno spezzato”.
Il nome di chi ha tentato l’impresa in questo senso è noto a tutti, Walter Veltroni. Alle spalle della sua scrivania di direttore dell’Unità, in via dei Due Macelli, a Roma, sarà stato il 1992, in luogo del ritratto di un già pregresso Berlinguer e della prima pagina dello stesso giornale che annunciava la “esaltante avanzata” dei comunisti alle elezioni cittadine del 1975, compariva esattamente il poster di un assorto Robert Kennedy.
Da qui un precipitato di suggestioni visive, epocali, cinematografiche, fotografiche o da rotocalco, in un ideale documentario sulla storia interrotta del trascorso Novecento che improvvisamente vira nella tragedia. Il fallito tentativo di conquistare simmetria politica e perfino antropologica con lo scatto leggendario che illustra JFK il 26 giugno 1963 davanti al Muro mentre pronuncia “Ich bin ein Berliner”, doverosa abiura da ogni trascorso filosovietico…
E ancora, restando a “Camelot”, nuovamente l’immagine non meno cinematografica sempre di “Bob” sulla spiaggia di Hyannis, lo sguardo rivolto al mare increspato, un cocker spaniel un passo dietro, il pettine del vento tra i capelli, a dare così l’idea di una “nuova frontiera” democratica.
Dettaglio micro-epocale nostrano: erano gli anni Sessanta, quando, a molte ragazze, i genitori facevano dono proprio di un cane della stessa pregiata razza, introdotto dai Kennedy nell’immaginario domestico attraverso le copertine di Life, affinché grazie a “Whisky” (così puntualmente sulla targhetta giù dal collarino) potessero ai giardinetti incontrare l’amore, il futuro sposo.
I cocker spaniel, si sappia anche questo, giunta la post-modernità politica, caduto il Muro di Berlino, li avremmo presto visti sostituiti da labrador e golden retriever.
Nell’immaginario collettivo nazionale pop segnato dal ricordo della polarizzazione comunisti-democristiani, JFK vive soprattutto nei fotogrammi del suo assassinio a Dallas, il 22 novembre 1963, giunti a noi dalla cinepresa 8 millimetri “Bell & Howell Zoomatic” del sarto Abraham Zapruder, immagini offerte dal caso, significative del secolo breve e del suo dopoguerra già in quadricromia, di un’idea del mondo che provava a rimettere in ordine le tessere del domino del “disgelo” e della “coesistenza pacifica”.
A seguire, non meno fosforescente, la scena in cui Marilyn, dopo aver colpito il microfono con un gesto delle dita metonimicamente sessuale, intona “Happy Birthday mister president…” Forse, per molti kennediani di casa nostra resta invece immobile il ricordo di Sabrina Ferilli in bikini color carne al Circo Massimo, bandiera giallorossa imbracciata trionfalmente, nel magnificat per il terzo scudetto della “magica” Roma.
E ancora, a cascata, scenario mitologico-domestico, nuovi piatti di modesta ceramica dove al profilo di John si affianca quello di “Jackie”, e poi figurine Panini (una premonizione degli album che Veltroni offrirà allegati a l’Unità?) con il volto ancora stagliato sulla Casa Bianca, o accanto alla bandiera a stelle e strisce sul Radiocorriere TV o magari sui rotocalchi Epoca, Oggi e Gente, se non nuovamente il suo profilo sul dollaro d’argento fior di conio del 1964 e presto incastonato come ciondolo di portachiavi.
Paccottiglia memoriale pronta ad affiancarsi ai trionfi di conchiglie e cannolicchi dei souvenir di Riviera di Chiaia o delle tazzine decorate con la svastica che brillano, esemplarmente, nel saggio di Gillo Dorfles dedicato al kitsch.
Forse, a dirla tutta, se un potenziale Kennedy l’Italia può dire di aver custodito nell’ideale astuccio di velluto della sua non meno brillante “alta società”, nella “Camelot” sabauda di Villar Perosa, il nome da fare è Gianni Agnelli, che molti ricordano, restando nella iconografia fotografica escursionistica kennediana, a condividere insieme a Marella perfino regate con JKF, “Jackie”; l’Avvocato tuttavia aveva la certezza di un proprio “regno” repubblicano senza necessità alcuna di assumere cariche di governo ufficiali, anche in questo caso, tra le immagini volatili come testo a fronte, se non proprio il piatto di ceramica come già per il “Papa buono” e per il presidente abbattuto nella Elm Street di Dallas presumibilmente da Lee Harvey Oswald, resta l’orologio sul polsino e l’elicottero privato sempre pronto a decollare per i suoi capricci, al posto di ciò che per il comune mortale è il taxi, se non bus e tram.
Ironia della storia, si perdoni l’inciso, dalla stessa tribù già influente democratica della famiglia Kennedy ultimamente è giunto a noi Robert Kennedy Junior, figlio di “Bob”, sostenitore delle teorie cospirative sulla morte dello zio presidente e del padre freddato cinque anni dopo a Los Angeles da Sirhan Sirhan. Due omicidi, garantisce l’erede, sicumera e mento sollevato, firmati Cia.
Tornano così anche le immagini del treno che accompagna la salma di RFK lungo la strada ferrata: “Funeral Train”, il titolo del portfolio fotografico di Paul Fusco che restituisce quell’ultimo viaggio, l’America in lutto che gli rende omaggio: uomini, donne, ragazzi, suore, boyscout, famiglie intere, veterani: bandiera e mani sollevate nell’addio nella fosforescenza degli abiti di moda in quei giorni; un popolo dolente ai margini dei binari che accosta la mano sul petto o innanza il cartello “SO-LONG BOBBY”; nessuno forse avrebbe mai un ultimo viaggio che riassume il Novecento, parte delle sue lacrime per una nuova promessa spezzata.
In verità, assente e indisponibile Gianni Agnelli, l’unico che avrebbe potuto, ah, se solo avesse voluto, assumere il peso della avventura kennediana tra il Pantheon e Fregene, l’infilata di piazza Colonna fino a Montecitorio e piazza del Popolo con il dehors del ristorante “Il Bolognese”, è probabilmente Giovanni Malagò, imprenditore romano, vera aristocrazia mondana e calcistica giallo-rossa, attualmente figura apicale della dirigenza sportiva del Coni.
Malagò, lui sì, perfetto anche nel sorriso, nell’avvenenza e nell’arte del distacco apparente verso ogni prosaico ingombro offerto dal quotidiano minuto mantenimento politico, per affermarsi unico possibile vero e garantito “concessionario” kennediano di casa nostra. Giustamente, Malagò, da tutti detto “Giovannino”, così come John per i suoi cari era soltanto “Jack”, ha saggiamente scelto di rimanere unicamente se stesso.