La ratifica
Accordo tra Italia e Albania, così il governo si è smentito da solo…
Se non può ricorrere alle norme comunitarie, allora dovrà appellarsi a quelle italiane. Cioè alla Costituzione, che è assai più favorevole ai profughi. Con buona pace di Meloni&co.
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Il 21 novembre 2023 il Ministro degli Affari Esteri Tajani ha riferito al Parlamento sul protocollo di intesa tra Italia ed Albania annunciando che, nel rispetto dell’art. 80 della Costituzione, “il Governo intende sottoporre, in tempi rapidi, alle Camere un disegno di legge di ratifica che contenga anche le norme e gli stanziamenti necessari all’attuazione del Protocollo”.
Si tratta indubbiamente di un positivo radicale ripensamento rispetto alle posizioni inizialmente espresse dal Governo che irragionevolmente aveva sostenuto la non necessità di alcuna ratifica parlamentare. Nella sua relazione Tajani ha voluto sostenere che il protocollo tra Italia ed Albania “non è paragonabile all’Accordo tra il Regno Unito e il Ruanda” che è appena stato dichiarato illegale della Suprema Corte del Regno Unito (vedasi l’analisi condotta su queste pagine il 17.11.23).
La differenza tra le due situazioni non porta tuttavia a concludere che le finalità che il Governo italiano intende realizzare con il protocollo con l’Albania siano legittime.
Nel suo intervento Tajani ha evidenziato che in base al protocollo verrebbero condotte in Albania due categorie di stranieri: la prima sarebbe costituita da “i migranti che possono essere trattenuti nelle strutture che li accolgono”, ovvero “i richiedenti asilo soggetti a procedura accelerata di frontiera, quindi persone non vulnerabili, provenienti dai Paesi sicuri o migranti che abbiano già presentato domanda di asilo ottenendo un diniego”.
La seconda da “persone in attesa di rimpatrio dopo l’accertamento dell’assenza dei requisiti per il soggiorno in Italia”. Come si vede permane in tali dichiarazioni una forte ambiguità rispetto a un possibile trasferimento e trattenimento in Albania di cittadini stranieri precedentemente espulsi in Italia (il testo del Protocollo non esclude infatti questo scenario).
Tajani sottolinea tuttavia che la base militare di Giadër verrebbe dedicata solo a “l’esame della domanda di protezione internazionale, e per chi non ne avrà i requisisti saranno effettuate le procedure di rimpatrio” mentre nella prima area, il porto di Shëngjin, verrebbe dedicata “alle attività di soccorso, di prima assistenza e di rilevamento segnaletico e di impronte digitali” e che “i migranti potranno arrivare nel porto albanese solo con navi delle autorità italiane intervenute in operazioni di soccorso” senza tuttavia null’altro precisare in merito all’area di intervento di detti soccorsi.
Tajani sembra tuttavia ignorare che sulla base delle norme italiane e internazionali tali navi sono tuttavia territorio italiano nelle zone di alto mare (art. 4 cod. nav.) e pertanto l’ingresso in Italia (e nell’UE) degli stranieri risulterebbe già avvenuto, “facendo venire meno l’oggetto stesso del Protocollo, che è di accertare il diritto di ingresso”, come ben evidenzia un accurato documento di analisi giuridica prodotto da ASGI, liberamente scaricabile, e alla cui lettura rinvio.
Il ministro Tajani ha ripetuto più volte nella sua relazione al Parlamento che, tanto nell’esame delle domande di asilo che nelle procedure di rimpatrio, si applicherà il diritto dell’Unione. Così però non è, come ho già evidenziato nell’articolo del 10.11.23, in quanto il diritto dell’Unione non può trovare applicazione al di fuori del territorio degli Stati membri.
Tale chiara impossibilità è stata riconosciuta dalla stessa Commissaria UE Johansson nella conferenza stampa del 15.11.23. I giornali italiani si sono in genere affrettati a enfatizzare le parole della Johansson laddove ha affermato che l’accordo Italia-Albania non viola il diritto dell’Unione, senza accorgersi che tali parole erano espressione di una funambolica eleganza con la quale la Commissaria scaricava politicamente l’Italia senza direttamente attaccarla: il diritto dell’Unione non viene infatti violato nella misura in cui non può trovare alcuno spazio applicativo e dunque, osserva la Johansson, “secondo l’accordo si applicherà in Albania il diritto italiano”.
Non si tratta affatto di una buona notizia per il Governo italiano per diverse ragioni; nel Protocollo, come nelle parole del Ministro Tajani al Parlamento, si effettua un continuo rinvio al “trattamento previsto dalle norme italiane ed europee” ma la procedura accelerata di frontiera che si vorrebbe applicare ai richiedenti asilo trattenuti nel centro in Albania sotto giurisdizione italiana è una procedura prevista dal diritto dell’Unione e recepita nell’ordinamento italiano.
L’invocata procedura accelerata non è in alcun modo applicabile perché il diritto dell’Unione da cui essa nasce ne prevede l’applicazione solo “alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro” (Direttiva 2013/32/UE articolo 43 paragrafo 1). Il Protocollo tra Italia ed Albania configura invece una situazione radicalmente diversa.
Come ben osserva il citato documento ASGI, gli stranieri verrebbero coattivamente trasportati in Albania, “Paese non appartenente all’UE, al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio italiano e dell’UE e predeterminare condizioni di esame di eventuali domande di asilo con garanzie procedurali e di accoglienza che di fatto saranno ridotte rispetto a quelle che devono essere eseguite in Italia”.
Solo il ricorrere di alcune ipotesi, disciplinate dalla citata Direttiva, autorizza gli Stati ad attuare, alla frontiera, procedure di esame delle domande di asilo, e ciò richiede sempre una valutazione individuale. Dunque anche ipotizzando, in modo diverso da ciò che sostengo, che in alcuni casi la procedura accelerata possa applicarsi in territorio albanese, ogni valutazione caso per caso andrebbe fatta in loco, suddividendo gli stranieri appena portati in Albania tra coloro che vengono trattenuti e coloro che invece devono essere subito trasportati in Italia, e tra essi tutti i casi vulnerabili.
Non sarebbe per nulla inusuale se la larga maggioranza, o persino la totalità delle persone soccorse, dovessero essere riportate in Italia dando vita ad una situazione grottesca, fonte di sperpero di risorse pubbliche.
Come ha ben messo in rilievo l’on. Mauri durante il dibattito parlamentare, i costi dell’intera operazione appaiono notevolissimi e al momento non risultano neppure adeguatamente quantificati (le spese di costruzione e gestione dei centri, nonché quelle per il personale di polizia e che dovrebbe esservi distaccato e per il funzionamento complessivo delle attività giudiziarie) e ciò, al di là delle rilevantissime questioni giuridiche, pone ulteriori seri interrogativi su un programma che si delinea tanto faraonico quanto inutile.
In ogni caso, se la decisione sulle domande di asilo sottoposte alla procedura accelerata non venisse presa entro il termine massimo di quattro settimane “il richiedente è ammesso nel territorio dello Stato membro” (Direttiva 2013/32/33 art.43 par.2) ovvero viene portato in Italia.
Tale quadro di totale incoerenza attiene ugualmente ai rimpatri in quanto una futura nuova norma interna in questa materia sarebbe anch’essa soggetta al diritto dell’Unione che prevede che le procedure di rimpatrio si applichino solo nel territorio degli Stati membri e la stessa nozione di soggiorno irregolare deve intendersi come “la presenza nel territorio di uno Stato membro di un cittadino di un paese terzo che non soddisfi o non soddisfi più le condizioni d’ingresso di cui all’articolo 5 del codice frontiere Schengen o altre condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza in tale Stato membro” (Direttiva 2009/115/CE, articolo 3).
Se il Governo italiano presenterà al Parlamento un disegno di legge per attuare il Protocollo con l’Albania con il quale vorrà introdurre delle procedure di esame delle domande di asilo e di espulsione degli stranieri basate esclusivamente su nuove norme interne non potrà farlo prendendo a suo piacimento pezzi del diritto dell’Unione, stravolgendo le nozioni giuridiche in esso contenute e abbassando le garanzie procedurali previste in quanto ciò si porrebbe in contrasto con il divieto di elusione del diritto europeo.
Un’ipotetica norma interna sciolta dagli obblighi derivanti dal diritto europeo potrebbe solo essere, sotto tutti i profili, più aperta e favorevole al richiedente in quanto dovrebbe basarsi sul diritto d’asilo sancito dall’ordinamento costituzionale all’art. 10 terzo comma che, come è noto, configura il diritto d’asilo come un diritto soggettivo riconosciuto “nel territorio della Repubblica” (art.10.3 Cost).
Come richiamato dal citato documento ASGI, “l’esercizio pieno della giurisdizione impedisce all’Italia di trasportare coattivamente (con quale provvedimento?), e poi trattenere, i richiedenti asilo in un paese terzo extra UE al solo scopo di configurare per essi un sistema di procedure di rimpatrio o di esame delle domande di asilo che sarebbe oggettivamente svolto in condizioni più sfavorevoli e speciali, in violazione del principio di eguaglianza”.
In particolare non sarebbe in alcun modo giustificata la limitazione della libertà personale adottata al di fuori delle fattispecie previste dal diritto dell’Unione (non esiste l’ipotesi della detenzione conseguente a deportazione). Inoltre nelle condizioni di detenzione in un paese terzo non sarebbe possibile garantire nessuna delle garanzie procedurali previste dalla Direttiva 2023/32/UE cui l’Italia è vincolata.