Il summit a Berlino
Patto di stabilità, Meloni chiede flessibilità ma Scholz impone il rigore
Giorgia ripete che vuole flessibilità dall’Europa, ma la Germania non si schioda dalla linea del rigore: niente scorporo degli investimenti dal deficit
Politica - di David Romoli
Reduci dal primo vertice del G20 con Putin (in videoconferenza) dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la premier italiana e il cancelliere tedesco, a Berlino, si presentano alla stampa decisi a mostrare la massima concordia. Sono d’accordo su tutto.
A Putin che diceva di volere la pace hanno risposto in coro, e non da soli, che basta ritirarsi dall’Ucraina per ottenerla. Vicini sul Medio Oriente, sulla sterzata strategica sull’immigrazione, in armonia sul patto con l’Albania. L’eccezione c’è ed il Patto di Stabilità.
“I punti di partenza sono diversi perché diverse sono le esigenze ma esporre con franchezza queste diverse esigenze dà i suoi frutti”, cinguetta l’italiana. “Abbiamo fatto passi avanti”, duetta il tedesco. Inutile chiedere quale passo concreto sia stato fatto. Le tre scimmiette della favola al confronto sono loquaci.
Meloni squaderna però sia le richieste italiane che gli argomenti a sostegno delle stesse. “L’Italia non vuole una politica di bilancio allegra e lo ha dimostrato. Quello che vogliamo è una protezione degli investimenti sui settori strategici indicati dall’Unione. La Germania richiama soprattutto il tema del rientro dal debito: cerchiamo il punto di incontro migliore per un patto che sia non dico facile ma almeno possibile rispettare”.
Insomma, l’Italia ha accettato i canoni del rigore. In cambio dell’affidabilità che ritiene di aver così conquistato vuole lo scorporo degli investimenti sui temi strategici dal computo del deficit. Sul Mes la premier ripete il suo ritornello: non si può decidere se non si conoscono i dettagli del Patto di stabilità.
È quanto di più vicino a una proposta di scambio si possa dire apertamente, Scholz concede molto di meno. Si lascia scappare solo una frase che suona, con un po’ di buona volontà, come spiraglio aperto: “Nessuno può costringere un Paese a politiche di austerità”. Ma i dettagli tecnici, cioè quel che davvero conta, vengono discussi in altra sede, nel colloquio, sempre a Berlino, tra Giorgetti e il ministro delle Finanze della Germania Lindner.
Quella sul nuovo Patto è una trattativa che si snoda attraverso gli incontri bilaterali e che arriverà alle conclusioni solo nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, tra la cena-vertice straordinario convocata per l’occasione e il summit ufficiale del giorno dopo. Dall’incontro di ieri, come da quello del giorno prima a Parigi Tra Giorgetti e l’omologo francese Le Maire, nessuno si aspettava che uscisse nulla di concreto.
La Germania per ora insiste sulla sua linea: rientro fisso annuale sul deficit, nella misura dello 0,5% del Pil, una decina di miliardi, nessuno scorporo a priori delle spese strategiche, come ecologia e digitale, dal conto del deficit e neppure degli interessi sul debito, zona cuscinetto, in percentuale ancora da definirsi, nel parametro sul deficit, che in concreto verrebbe quasi abbassato al 2%. Sul capitolo interessi sul debito, però, la Francia è sulle posizioni italiane.
Alle prese con una partita così importante, delicata e difficile a Giorgia Meloni mancavano solo le punzecchiature guerrigliere della Lega. Per tutta la mattina, ieri, si è atteso il ritiro dei tre emendamenti alla legge di bilancio che la Lega aveva presentato a sorpresa, rompendo la consegna per cui la maggioranza stavolta non deve chiedere modifiche di sorta.
Alla fine gli emendamenti sono stati trasformati in odg come era sin dall’inizio chiaro che la vicenda sarebbe andata a finire. Il Carroccio si è giustificato spiegando che non comportando gli emendamenti alcun onere corrispondevano alla richiesta del ministro dell’Economia.
Poi il capogruppo Romeo si è assunto la responsabilità sostenendo di aver “capito male”. Nel vertice di maggioranza con il ministro per i Rapporti con il Parlamento Ciriani aveva avuto la sensazione che “due o tre emendamenti, solo a livello simbolico, si potessero presentare”. Alibi fragile, dal momento che da giorni il diktat del governo è ben noto persino ai divani di Montecitorio. La Lega, insomma, ha voluto lanciare un segnale, piccolo, quasi indolore e tuttavia esplicito.
La manovra senza emendamenti di maggioranza è un inedito assoluto e, anche se quasi tutti fanno finta che si tratti di un particolare, si tratta invece di una forzatura di enorme portata e di una rottura significativa con le consuetudini democratiche.
Gli emendamenti ovviamente ci saranno, quando il 12 dicembre la legge di bilancio approderà in aula. Saranno moltissimi, circa 2600: però tutti dell’opposizione e dunque tutti destinati a finire nel cestino, a meno che il governo non decida di fare il bel gesto e di assumerne un paio nel maxiemendamento finale.
Le poche modifiche della manovra, roba da non più di 100 milioni, saranno ripartite infatti tra alcuni emendamenti dei relatori, ancora non presentati, e il maxi finale. In ogni caso, senza emendamenti di maggioranza sui quali parti dell’opposizione potrebbero convergere, il Parlamento è per la prima volta tagliato fuori dalla definizione della legge, per definizione, più importante dell’anno.
La premier ha deciso una simile forzatura per diversi motivi: evitare sorprese costose, ipotesi comunque improbabile anche se la presentazione di 3 emendamenti avrebbe forse spinto anche Fi a fare lo stesso, poi dimostrare nei fatti quanto la visione istituzionale veicolata dalla riforma costituzionale renda tutto più celere ed efficiente, ma soprattutto offrire alla Ue, nella corsa finale verso il nuovo Patto di Stabilità, l’immagine di una maggioranza granitica e di un governo che più stabile non si potrebbe. La punzecchiatura della Lega avverte che proprio su questo fronte essenziale la Lega potrebbe prima o poi riservare sgradite sorprese.