La guerra di Gaza, la tragedia umanitaria in atto. Il destino di un popolo sotto occupazione. Ne parla, in questa intervista esclusiva all’Unità, l’Ambasciatrice di Palestina in Italia, Abeer Odeh.
Signora Ambasciatrice, l’Unità racconta di ciò che sta avvenendo da un mese nella Striscia di Gaza come di un genocidio in atto. Perché la stampa ha cancellato questa parola?
Sembra proprio che la stragrande maggioranza della stampa italiana applichi due pesi e due misure quando si tratta di descrivere i crimini di guerra che vengono purtroppo commessi nel mondo contravvenendo a qualsiasi regola del diritto internazionale. Nel caso dei bombardamenti israeliani contro la popolazione di Gaza non c’è dubbio che si tratti di un attacco indiscriminato, di una punizione collettiva che ha per obiettivo la pulizia etnica della Striscia attraverso il genocidio dei suoi abitanti palestinesi. Pur trattandosi di una flagrante violazione di norme sottoscritte dalla comunità internazionale, molti media italiani si limitano a riprodurre la propaganda di Israele, che giustifica tali nefandezze con argomenti davvero poco credibili a meno che non vi sia mala fede. Il fatto che la propaganda israeliana condizioni le posizioni assunte da alcuni governi, che con il loro sostegno alle azioni di Israele sono divenuti complici dei suoi crimini allontanandosi sempre di più da quello che è invece il comune sentire dei loro popoli, non costituisce un’attenuante, ma semmai aggrava la posizione di chi dovrebbe descrivere con onestà questa profonda contraddizione. A maggior ragione se, come accade, la voce dei giornalisti viene brutalmente messa a tacere da Israele. Lo scorso mese di ottobre è stato il più sanguinoso dal 1992 in Palestina per questa categoria di lavoratori. Almeno 62 di loro sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane mentre cercavano di svolgere il loro lavoro. Non è un caso che Israele colpisca chi produce testimonianze sui suoi crimini e distrugga le sedi dei media a Gaza oggi come altrove in passato. Purtroppo, non abbiamo letto molte dimostrazioni di cordoglio o di sostegno da parte dei giornalisti italiani nei confronti dei loro colleghi uccisi o sotto continua minaccia.
Lei ha contatti quotidiani con Gaza. Da donna e non solo da rappresentante in Italia dell’Autorità Nazionale Palestinese, cosa l’ha colpita di più di quelle testimonianze?
Quello che mi ha colpito di più è la reazione di alcuni Paesi di fronte al genocidio commesso dal governo israeliano, che ha ucciso e continua a uccidere soprattutto donne e bambini: parliamo, ad oggi, di almeno 7.621 bambini e di almeno 3.910 donne su almeno 18.219 palestinesi morti a causa dei bombardamenti israeliani. Molti di loro – tra cui almeno 4.000 bambini – sono ancora sotto alle macerie e di molti non si ha alcuna notizia visto che i luoghi della distruzione non sono più accessibili. I feriti sono quasi 35.000, per il 75% donne e bambini. La cosa incredibile è che, secondo il diritto internazionale, tutti i membri della comunità internazionale hanno il dovere di proteggere i popoli che vivono sotto occupazione. Nel caso del popolo palestinese sotto occupazione e attacco, tuttavia, non solo non scatta nessuna protezione, ma non si sentono nemmeno molte voci dispiaciute per quanto sta accadendo a Gaza. Si ode invece un coro di solidarietà verso una potenza occupante e distruttrice determinata ad uccidere sempre più palestinesi, a cui ancora una volta viene promessa l’impunità nonostante le sue azioni corrispondano evidentemente a crimini di guerra secondo tutte le definizioni del diritto internazionale umanitario.
Come donna, dunque, sento il dolore dei padri e delle madri che hanno perso i loro figli, degli orfani rimasti soli, di chi ha perso la speranza di trovare ancora qualcuno vivo sotto alla macerie, di chi resterà ferito a vita, sotto shock o mutilato. Mentre i bambini di tutto il mondo celebravano in questi giorni la Giornata Mondiale dell’Infanzia, i sogni dei bambini palestinesi venivano decimati dalla violenza dell’occupazione israeliana. Tutto questo – quando l’aggressione sarà finita – avrà certamente un impatto sulla nostra società e sul mondo intero.
Il Primo Ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, ha più volte affermato che la guerra potrà dirsi conclusa solo quando Hamas sarà annientata.
A Gaza è in corso un genocidio. António Guterres ha giustamente sottolineato che stiamo assistendo a un’uccisione di civili senza pari e senza precedenti in qualsiasi conflitto da quando lui è Segretario Generale delle Nazioni Unite. Credo che a questa constatazione debbano seguire azioni ben precise. Sembra che una tregua sia vicina e accogliamo naturalmente con favore la liberazione dei nostri prigionieri detenuti ingiustamente nelle carceri israeliane, tuttavia quello di cui c’è veramente bisogno è un cessate il fuoco immediato, non una pausa tra un bombardamento e l’altro. Israele sta compiendo una pulizia etnica che non può essere semplicemente rimandata di qualche giorno ma deve essere invece fermata, proibita e condannata con durezza dalla comunità internazionale.
Di fronte a questa escalation di violenza e di odio, ritiene che sia ancora possibile un negoziato di pace fondato sulla soluzione a due Stati?
Ad essere onesta, dopo 48 giorni di brutale aggressione mi riesce difficile pensare che si possa ottenere una pace a breve. Tuttavia, crediamo ancora che una pace giusta, che prenda in considerazione il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e la sovranità di uno Stato di Palestina sui confini del 1967 con capitale Gerusalemme Est, sia l’unico obiettivo da perseguire. Ciò significa, in primis, porre fine all’occupazione israeliana della nostra terra. Una Conferenza Internazionale di Pace, come quella proposta a più riprese dal nostro Presidente Abu Mazen, potrebbe essere una buona occasione per rilanciare la soluzione dei due Stati apertamente osteggiata da Israele, chiedendo alla potenza occupante di rispondere delle sue violazioni delle risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite. Ciò implica che la comunità internazionale prenda sul serio il proprio compito, esprimendo una posizione forte e delineando una cornice temporale ben precisa entro la quale giungere alla soluzione dei due Stati.
L’attenzione internazionale è concentrata su Gaza, ma le morti si contano anche in Cisgiordania.
Grazie per questa domanda, che serve a ricordare come già prima del 7 ottobre la persecuzione del nostro popolo per mano delle forze di occupazione fosse divenuta intollerabile, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Qui la situazione è diventata davvero spaventosa, con città e villaggi sotto assedio dove i palestinesi non possono più entrare né uscire, mentre i coloni, armati fino ai denti dall’esercito israeliano, dal 7 ottobre hanno moltiplicato le loro spedizioni punitive – almeno 254 – contro i legittimi abitanti della terra che loro occupano illegalmente e contro le loro proprietà. Da quel giorno, le forze di occupazione e i coloni hanno ucciso in Cisgiordania almeno 230 palestinesi tra cui almeno 70 bambini, se si considerano anche le aggressioni condotte a Gerusalemme Est. Parliamo anche di quasi 3.000 feriti e di più di 1.200 persone – compresi 400 bambini – costrette ad abbandonare le loro case a causa della violenza dei coloni. Se si pensa che il trasferimento forzato della popolazione palestinese di Gaza ha già coinvolto quasi 2 milioni di persone, si capisce che si tratta di un piano di pulizia etnica globale.
Signora Ambasciatrice, un grande intellettuale palestinese scomparso, Edward Said, ebbe a scrivere che la tragedia dei palestinesi è “essere vittime delle vittime”.
Israele è un Paese occupante che viola sistematicamente le norme condivise del diritto internazionale facendo carta straccia delle più ovvie regole umanitarie. Nonostante ciò, ama presentarsi come l’unica vera vittima sulla faccia della terra. La cosa grave è che in molti credano o facciano finta di credere a questa favola. Dopo tutto quello che abbiamo detto e soprattutto dopo tutto quello che abbiamo visto in questi giorni mi sembra evidente chi siano le vittime e chi siano i carnefici. Se qualcuno non lo vede è perché non vuole vederlo.
Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia?
All’Italia chiedo: Dove sei? Quando sono arrivata quattro anni fa pensavo di atterrare in un Paese amico. Ho trovato un Paese amico ma diviso. Apprezzo enormemente il sostegno e la solidarietà del popolo italiano, che non manca di esprimerci la sua vicinanza in tutte le forme immaginabili. Noto tuttavia un gap, evidentemente colmabile, tra ciò che il popolo vorrebbe e quello che la sua leadership riesce a fare per far sentire la voce dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo, con l’obiettivo di porre fine a uno sterminio e conseguire la pace.