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Quando eravamo “brava gente”: dall’accoglienza alla xenofobia

Lo sbarco della nave Vlora

Lo sbarco della nave Vlora

Le politiche europee contemporanee sull’immigrazione dal “sud” del mondo, Medio Oriente, Asia e America latina comprese, finora sono state inadeguate e mancano costantemente l’obiettivo.

Di sicuro quelle italiane, anche se avevano alcuni vantaggi di partenza e se, fino alla nascita dell’Unione, avevano i modelli francese e inglese cui ispirarsi, anche per evitarne gli errori. Quelli del modello “comunitarista” inglese, fatto a isole etnico-culturali, e quelli del modello francese, generoso nei diritti amministrativi e politici, avarissimo sul terreno sociale, fino alla crescita di banlieu di esclusi.

La “non gestione” spontaneista italiana fino agli anni Novanta, il ritardo di provvedimenti mirati, che si risolveva in sanatorie periodiche precedute da tolleranza sostanziale ma anche da sostanziale sicurezza e assenza di incidenti lasciava aperta all’Italia la strada di un assorbimento ordinato e governato di immigrati, lavoratori e non solo braccia per il mercato del lavoro, per gli aggiustamenti necessari alla crescita, e per un modello di convivenza normale, da sostenere con misure di tutela dei lavoratori, di accompagnamento sociale, lingua e cultura italiana, un modello misto.

Erano gli anni in cui il Ragioniere generale dello Stato, Monorchio – non un pericoloso sovversivo estremista – indicava come necessario allo sviluppo nazionale l’arrivo e l’inserimento di 250 mila immigrati all’anno. Ma l’occasione è stata persa, perché persi sono stati gli anni in cui le migrazioni verso l’Europa non erano argomento di scontro politico.

C’è stata una tregua non scritta per molti anni. Quando il padre di Marine Le Pen, non vergognandosi del suo cuore dalle radici petainiste, filo-fasciste e razziste, ha cominciato a farne battaglia politica era isolato, in Europa e in Francia. Aveva poco da perdere: era una ristretta minoranza, quando con il Fronte Nazionale alle presidenziali francesi del 1974 aveva preso lo 0,74 per cento. Quando si è minoranza-minoranza le boutades diventano distintivo e identità: “ho coraggio”, “ci metto la faccia”.

Negli anni Ottanta, fino all’inizio degli anni Novanta, gli italiani erano davvero “Italiani brava gente”, anche se nel maggio 1979 a Roma era stato bruciato un giovane somalo, Alì Jama.

Mentre dormiva sotto al portico della chiesa della Pace, a fianco di piazza Navona. Il sabato successivo i giovani di Sant’Egidio avevano fatto una veglia di preghiera invitando Giovanni Paolo II, che il giorno dopo ne aveva parlato all’Angelus.

10 anni dopo, il 25 agosto, a Villa Literno sarebbe stato ammazzato da criminali legati allo sfruttamento dei braccianti nella raccolta dei pomodori Jerry Essam Masslo, un rifugiato sudafricano che aveva lasciato le sneakers buone, assieme alla sua Bibbia, dove aveva trovato ospitalità, presso la Tenda di Abramo, a Trastevere.

Quella casa speciale era stata inaugurata, con la Comunità di Sant’Egidio, Desmond Tutu, l’anno prima. Prodromi e prove generali di intolleranza sconsiderata fino a diventare assassina. Ma, complessivamente, gli italiani brava gente lo erano per davvero, esprimevano simpatia, solidarietà, quasi sempre gentilezza.

Non come durante la campagna di Etiopia quando il generale-viceré Graziani gassificava i “barbari” e i contadini-soldati sognavano un pezzo di terra tutta loro, che gli era stata promessa con il “posto al sole”, non importa rubato a chi.

Quando il viceré ordinava al generale Maletti di compiere il più grande crimine di guerra della storia italiana (assieme alle fucilazioni di italiani ordinate dopo la sconfitta di Caporetto dal responsabile della disfatta, il generale Cadorna): una strage di cristiani, monaci, preti e vescovi più grande di quella, terribile, degli Ottomani del 1531.

Era il 1937, e il massacro del monastero di Debre Libanòs durò 8 giorni, dal 21 al 29 maggio: in nome della “civiltà superiore” italiana e tutto sommato “cristiana”, come parte dell’annientamento della regione dello Scioa, avviato con questo ordine: “Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioa e più acquisterà benemerenze nei riguardi pacificazione territorio impero”.

Lo erano davvero anche avevano attaccato una Francia amica e già in ginocchio, occupata dai nazisti di Hitler, senza nemmeno riuscire a penetrare davvero in territorio francese.

Anche se il 28 ottobre 1940 – anniversario della Marcia su Roma – avevano invaso la povera Grecia amica e povera, ma non così povera da non riuscire presto – guerra di popolo e generale inverno e scarpe di cartone e impreparazione e arroganza e fame di sedersi “al tavolo dei vincitori” – a spingere quei poveri combattenti italiani, illusi e ingannati, a difendersi sul territorio albanese, in un’Albania che era già italiana di affetto e di influenza ma che era stata annessa per il diritto razziale, storico, fatidico, all’Impero. Italiani brava gente.

Il 27 giugno del 1979 l’incrociatore Vittorio Veneto della Marina Militare italiana e l’Andrea Doria avevano ricevuto l’ordine di andare verso le cose del su est asiatico, al largo del Vietnam. Dovevano salvare le vite umane che vennero battezzate “boat people” (non clandestini, invasori, o altro). Era la prima volta che navi militari venivano impiegate per salvare dei civili – e per giunta non italiani: un bel soggetto per un film, oggi, che suona come “2001 Odissea nello spazio”.

C’era anche una nave-appoggio, la Stromboli. Era il governo Andreotti ad averlo deciso. Il 21 agosto arrivarono a Venezia, e scendono (non: “sbarcano”). Ad accoglierli il ministro della Difesa Ruffini, il capo della Protezione civile Zamberletti, gli alti gradi militari, il patriarca.

Nel frattempo il governo era diventato il Cossiga 1. Telegiornale, prima serata. Anni dopo il ministro Ruffini scriveva: “Mi riempie ancora di commozione la vicenda dei vietnamiti fuggiaschi dal Vietnam del Nord. Scappavano via su barche, zattere, imbarcazioni di fortuna. Naufragavano a migliaia, e a migliaia venivano assaliti e uccisi da moderni pirati” (basta mettere trafficanti umani al posto di pirati).

Vedere quelle immagini è emozionante davvero. Gli italiani fecero a gara, comune per comune, per l’accoglienza. A Castelfidardo, nelle Marche, ci sono giovani che sono nipoti di quella storia. Dopo il colpo di stato di Pinochet l’ambasciata d’Italia divenne il rifugio e la salvezza di centinaia di cileni, e due diplomatici, Piero de Masi e Roberto Toscano non ebbero dubbi, come non li ebbe il governo italiano.

E come avrebbe potuto, se l’Italia era diventato il luogo della sicurezza e dell’amicizia dei perseguitati del colpo di stato dei colonnelli in Grecia, quello iniziato il 21 aprile 1967 e che avrebbe imprigionato quel paese amico e così simile al nostro Sud, “una faccia una razza”, se le nostre università hanno cominciato a formare la “meglio gioventù” greca (non c’era ancora l’Unione Europea, ma i profughi potevano frequentare l’università, senza ostacoli, incoraggiati, aiutati).

C’è un filo che lega quegli avvenimenti e la decisione del governo italiano, governi Letta e Renzi, di avviare l’Operazione Mare Nostrum, la più grande operazione di salvataggio europea di profughi in mare, dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014, iniziata due settimane dopo il grande naufragio di Lampedusa.

E siamo arrivati all’ultimo decennio, quelli dell’occasione perduta. Dai governi di centro-sinistra (so-le cose-giuste-ma-faccio-solo-quelle-che-pur-non-risolvendo-creano-meno-preoccupazione, fino al “modello Minniti”, che come effetto collaterale ha dato cittadinanza ai campi di concentramento libici e all’”esternalizzazione” della gestione dei profughi), con i governi Renzi e Gentiloni , indebolito sul finire, che non hanno mai messo in votazione al Senato, quando avevano la maggioranza, la legge già approvata senza difficoltà e con consenso alla Camera sullo ius soli temperato e lo ius culturae (vicenda che conosco bene per esserne stato il primo firmatario).

Occasione perduta ancora di più dai governi di centro-destra a baricentro verde-leghista, e dall’ultimo, di destra-centro. Perché non si fanno mai le cose che servono a coniugare umanità, accoglienza, sicurezza, ingressi regolari, accompagnamento, integrazione, ma c’è una rincorsa per creare percorsi a ostacoli, angherie regolamentari che impediscono proprio le uniche cose che crea sicurezza, cioè stabilità e percorsi di integrazione?

Perché non si possono dare risposte giuste se la domanda che ci si fa è sbagliata. L’immigrazione, le grandi migrazioni mondiali, non sono un’emergenza, ma sono un fatto strutturale. Le soluzioni emergenziali – e per di più su base nazionale – non potranno mai rispondere a fatti strutturali, epocali, globali, mondiali.

È così che le migrazioni mondiali sono da tempo la “grande occasione”: ma un’occasione persa per il mondo occidentale (meno per i tedeschi che hanno pianificato grandi numeri di accessi e investimenti nella formazione e nel mondo produttivo, con crescita di PIL) e soprattutto per noi.

(fine seconda puntata – continua)