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Alberto Asor Rosa, un piccolo borghese sul piedistallo

Alberto Asor Rosa

Alberto Asor Rosa

Non è questo un libro (Alberto Asor RosaScrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia-Samonà e Savelli, pp.580, l.4800) che debba essere trattato con diplomazia (se pure esistono libri verso cui sia giusto usare prudenti sorrisi): e del resto lo stesso Asor Rosa sarebbe molto più offeso da mezze critiche, mezzi riconoscimenti, mezze ammissioni o mezzi silenzi che dall’esposizione chiara o senza reticenze del nostro completo dissenso.

Perché il libro a mio parere è sbagliato: sbagliato nella sua struttura generale anche se per avventura possono trovarsi qua e là giudizi esatti e talvolta anche acuti. Vediamo.

L’oggetto del libro non è tanto il ‘populismo’ in senso stretto, quanto il modo in cui nell’ultimo secolo si è venuto configurando in Italia il rapporto tra intellettuali e popolo e in particolare tra scrittori e popolo.

La conclusione del libro è che tale modo non esce mai dall’ambito di schemi borghesi, anzi piccolo borghesi; che di conseguenza si possono mettere accanto “populisti di origine democratica, nazionalista, fascista, socialfascista, antifascista, resistenziale e gramsciana”; che, infine, a questo populismo “va attribuita la responsabilità di molta parte del moderatismo letterario italiano tra l’Otto e il Novecento”.

L’articolazione del libro è data da tre capitoli dedicati rispettivamente al populismo italiano risorgimentale e postrisorgimentale fino alla prima guerra mondiale, a quello del ventennio fascista e a quello resistenziale e gramsciano. Il volume si chiude con due saggi su Cassola e Pasolini.

Asor Rosa nell’introduzione ci dice che il suo discorso è stato nelle varie parti “congegnato in modo da precipitare tutto verso le sue ultime conseguenze, cioè verso la letteratura dell’antifascismo, della Resistenza e del gramscianesimo”, perché lontana dalle sue intenzioni era l’esigenza di una “ricostruzione storica pura”.

Ci dice anche che tale discorso è “politico” e che l’obbiettivo ultimo della sua ricerca è la “critica di parte operaia” a un aspetto assai importante della letteratura italiana dell’ultimo secolo.

Forse questi avvertimenti non erano necessari perché dalla lettura appare molto evidente che il punto di partenza ideale del libro (indipendentemente dai tempi in cui sono stati scritti i vari capitoli) è proprio la parte dedicata al secondo dopoguerra e la critica alla politica di unità svolta dal movimento operaio.

Così i luoghi comuni della critica “da sinistra” della politica del movimento operaio che ci siamo sentiti ripetere da varie parti negli ultimi venti anni, sono tutti raccolti in queste pagine: la Resistenza è stata un fatto popolare, e non di classe; il movimento operaio ha realizzato una politica di unità nazionale e, quindi, ha rinunciato alle sue proprie aspirazioni; gli obbiettivi che la classe operaia si è dovuta porre per mantenere tale fronte largamente unitario sono quelli di “una democrazia rappresentativa, nutrita di forti preoccupazioni sociali: libertà, giustizia, superamento delle strozzature tradizionali in campo economico e politico” e non, quindi, gli obbiettivi della trasformazione socialista del paese, si è snaturata la classe operaia attribuendole una funzione nazionale (e Asor Rosa sembra rimproverare persino il salvataggio delle fabbriche nel ’45) si è imposta al movimento operaio una strategia, quella della via italiana al socialismo, come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi.

Sul piano culturale questo ha comportato in primo luogo il richiamo a una tradizione e non, quindi, la rottura con la cultura borghese; in secondo luogo la caratterizzazione della cultura progressista “come protesta e denuncia dell’arretratezza socio-economica dell’Italia” come “forte indignazione morale, ribellione ideale” e non quindi come critica “di parte operaia” della società capitalistica; in terzo luogo l’attribuzione alla letteratura di un compito direttamente sociale (il cosiddetto impegno); in quarto luogo il collegamento dell’impegno sociale con l’impegno nazionale e, quindi, la incapacità di uscire dal solco della nostra letteratura ottocentesca e di collegarsi con le grandi esperienze della letteratura europea.

Personalmente ritengo che tutte le posizioni indicate da Asor Rosa come errori furono profondamente giuste e che la politica di unità e la ripresa delle bandiere della libertà e della democrazia furono l’unico modo per la classe operaia di fare “storia” (altrimenti sarebbe davvero rimasta nel frigorifero ad aspettare non so bene che cosa): ritengo che senza quella unità non ci sarebbe stata in Italia la Resistenza, che rimane una svolta decisiva della nostra storia anche se Asor Rosa sembra considerarla uno sbaglio, e ritengo che anche oggi quell’unità e quegli obbiettivi democratici siano essenziali per uno sviluppo del nostro paese verso il socialismo.

Ma non è di questo che voglio discutere. Voglio discutere il fatto che partendo da simili premesse Asor Rosa doveva necessariamente scrivere un libro sbagliato.

Non solo perché sono sbagliate le premesse, ma soprattutto (ed è questa la cosa più grave almeno in sede di storiografia letteraria) perché tutta la storia è costruita in funzione della conferma di quelle premesse, e gli autori nella maggioranza dei casi, sono cavie, pretesti, oggetto di “esercitazioni” per avvalorare un’ipotesi che già in partenza si considera giusta.

Si segue in questo libro un metodo che è il contrario del metodo scientifico: del metodo cioè che dall’esame il più possibile obbiettivo dei fatti ricava un’ipotesi di lavoro e lascia aperta tale ipotesi in modo che possa essere sminuita, sostituita e anche capovolta, finché non si arrivi a una verifica definitiva.

Non c’è da stupirsi, di conseguenza, se nel primo frettoloso capitolo (che ci porta in cento pagine da Berchet alla prima guerra mondiale) sfuggono alcuni nodi decisivi come l’elaborazione del tema della questione meridionale e la corruzione del concetto di “nazione” operatasi negli ambienti crispini (per cui, sotto questo concetto, non è possibile, come fa antistoricamente Asor Rosa, raccogliere scrittori e posizioni radicalmente antitetiche).

Non c’è da stupirsi se prendendo come metro di misura la critica “di parte operaia” (nell’accezione che abbiamo visto prima) la letteratura italiana si trasforma in un cimitero, da cui si salvano solo tre o quattro nomi e si rimprovera al populismo persino di aver impedito la formazione di una vera letteratura “grande borghese”.

Non c’è da stupirsi se viene liquidato in poche pagine (e sempre nella stessa chiave con cui si era liquidata l’esperienza postrisorgimentale) un nodo storico così complesso e così poco studiato (almeno dal punto di vista degli orientamenti dello spirito pubblico) quale la prima guerra mondiale; non c’è da stupirsi se quasi non ci si accorge del filone gobettiano che permane tenace durante tutto il ventennio e così via. Non voglio insistere perché si potrebbe continuare per molte pagine.

Voglio però rilevare ancora alcune contraddizioni o affermazioni che mostrano l’inconsistenza di questa critica “di parte operaia” nel significato che vuol darle il nostro autore. Asor Rosa si dichiara persuaso che non c’è un rapporto necessario tra consapevolezza ideologica e riuscita artistica e poi imposta tutta la sua analisi sul fatto che l’ideologia populista portava anche a scelte stilistiche che mortificavano la nostra letteratura.

Asor Rosa ci dice che il marxismo “non implica una concezione del mondo che impone alla letteratura e alla poesia”, confonde quello che noi chiamiamo “asse ideologico” con la ideologia professata dall’autore o con la concezione del mondo, e dimentica che il marxismo, se non impone una concezione del mondo, non può non ispirare una letteratura “antagonista” a quella borghese.

Asor Rosa, pur facendo una critica “di parte operaia”, mantiene intatta la scala dei valori fissata dalla critica borghese per quanto riguarda il nostro Novecento (quello del provincialismo e della sprovincializzazione) non accorgendosi che proprio il movimento neorealista ha portato nello stesso tempo all’approfondimento di aspetti importanti della società nazionale e all’assimilazione compiuta e critica delle scoperte stilistiche delle avanguardie europee (basta pensare al cinema o a Pavese e Vittorini).

Asor Rosa, che pretende di fare una critica “di parte operaia”, ci fa sapere che la questione metodologica è un falso problema ideologico e che per lui è indifferente usare il metodo “stilistico o quello sociologico, quello storico o quello cosiddetto genetico-ideologico”: sposa in tal modo la tesi del revisionismo crociano di questo dopoguerra e, a conferma, della sostanziale anti-scientificità di tutto il suo discorso, ci confessa, “come nel gioco che è a questo livello la critica letteraria, l’uno valga l’altro: può essere divertente, anzi, utilizzarli tutti, l’uno dopo l’altro, così come viene”.

Se mettete insieme tutti questi elementi e cercate di coglierne il tratto comune, vi accorgete che questa pretesa critica “di parte operaia” è una critica (essa si) tipicamente piccolo borghese. Piccolo borghese la volontà di isolare la classe operaia in una sua pretesa purezza, piccolo borghese il massimalismo degli obbiettivi, piccolo borghese il gusto della strage e della stroncatura.

Piccolo borghese il rispetto dei canoni della critica borghese, piccolo borghese il trovar provinciale tutto ciò che è nazionale, piccolo borghese il rispetto indiscriminato dell’avanguardia, piccolo borghese il tono di disprezzo e di sufficienza e la volontà di fare scandalo con cui è costruito tutto il volume. C’è una pagina particolarmente rivelatrice: è quella sulla speranza.

“Se il popolo è ricettacolo di valori umani perenni, la speranza è fra di questi esattamente il cardine, intorno a cui ruota tutto il sistema. Essa è la virtù principe del progressismo. Sostituisce nel popolo l’incapacità a giudicare razionalmente il mondo e l’impotenza ad agire in senso rivoluzionario. Sentimento naturalmente compromissorio e gradualista, e proiezione di un oggettivo immobilismo storico-sociale in una dimensione prettamente ideologica…L’invito a sperare è sempre invito a ignorare. Non spera chi conosce”.

È la pennellata finale del ritratto del piccolo borghese. Asor Rosa sale su un piedistallo per sembrare più alto, vuol essere solo e senza alleati, ama la parola rivoluzione, disprezza coloro che agiscono nella storia perché soggetti e compromessi, gli piace scandalizzare e provocare, e mostra orgogliosamente al colto e all’inclita il suo cuore senza speranza.

Mi scusi Asor Rosa ma l’immagine non vuol essere offensiva (e del resto tutto il mio discorso non vuole essere tale). Vuole solo sottolineare l’assolutezza del nostro discorso. E richiamarlo alla coscienza della sterilità della sua posizione. Noi abbiamo commesso numerosi errori (ed una critica ben più profonda, a mio parere, dei limiti anche ideologici del neorealismo l’abbiamo fatta molto prima di Asor Rosa in un convengo dell’Istituto Gramsci).

Ma pure qualche cosa abbiamo realizzato: la Resistenza, ad esempio, e il neorealismo che, con tutti i suoi difetti, rimane a tutt’oggi l’unica proposta di una cultura “antagonista” alla cultura borghese italiana. Egli con questo libro ci riporta indietro, sul piano ideologico e su quello scientifico. Indietro forse di cinquant’anni. E quel che è peggio senza alcun risultato.