La guerra di Gaza
“Crimini di guerra di Hamas e di Israele, li giudicherà l’Aia”, parla Riccardo Noury
«Tel-Aviv ha massicciamente violato le convenzioni internazionali bombardando deliberatamente ospedali e facendo strage di civili. Denunciarlo non è antisemitismo, ma difesa dei diritti umani. Di tutti. Non solo quelli di una parte»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La guerra di Gaza e il diritto internazionale umanitario. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità? L’Unità ne discute con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia, un’autorità su questi temi.
Dalla visuale di Amnesty International come definire la guerra di Gaza scatenata da Israele in risposta al sanguinoso attacco del 7 ottobre da parte di Hamas?
Intanto, inizierei a definire meglio il “sanguinoso attacco del 7 ottobre”: una serie di crimini di guerra commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi, consistenti nell’uccisione di massa di almeno un migliaio di persone e nella presa in ostaggio di oltre 200 persone, nell’uno e nell’altro caso in amplissima parte civili israeliani. A questi crimini di guerra, vanno aggiunti quelli costituiti dal lancio indiscriminato di migliaia di razzi contro i centri abitati israeliani e, infine, l’evidente coercizione nei confronti degli ostaggi costretti ad apparire in video e a fare dichiarazioni dirette alle autorità israeliane.La risposta israeliana è stata una sequenza di ulteriori crimini di guerra. Dall’una e dall’altra parte, mai come in altre occasioni, ci sono state palesi ammissioni di colpevolezza, direi di rivendicazione, di tali crimini di guerra: video di propaganda, dichiarazioni, interviste. Per i giudici della Corte penale internazionale sarà molto semplice mettere insieme le prove per le incriminazioni. Sempre che si arriverà a questo indispensabile passo avanti nella lotta all’impunità.
Israele ha rivendicato il diritto di difesa. Ma il diritto internazionale e quello umanitario non definiscono dei paletti, dei limiti, a questo diritto?
Israele ha il diritto di difendersi da una minaccia alla sua sicurezza. Ma le regole di guerra, ossia le Convenzioni di Ginevra coi loro protocolli aggiuntivi, devono essere rispettate in ogni circostanza. Queste regole vincolano al rispetto di principi universali: i civili vanno protetti, occorre applicare il principio di distinzione, le punizioni collettive sono vietate. La risposta di Israele ha violato massicciamente tali regole. Le forze armate israeliane hanno portato ripetutamente a termine attacchi intenzionali contro civili e obiettivi civili (centri abitati, campi rifugiati come quello di Jabalya colpito più volte, ospedali, persino luoghi di pace e preghiera come la chiesa greco-ortodossa di San Porfirio) in assenza – come Amnesty International ha verificato – di obiettivi militari. Ci sono stati poi attacchi sproporzionati, in cui il vantaggio militare preventivato è stato ottenuto – se e quando è stato ottenuto – con un impressionante numero di perdite civili. Un esempio? Se si ritiene che in un’abitazione del campo rifugiati di Jabalya risieda un capo di Hamas e se, per eliminarlo, si bombarda buona parte del campo facendo decine e decine di vittime civili, quello è un attacco sproporzionato. Cosa sia il principio di distinzione lo ha spiegato molto bene Rosario Aitala, giudice della Corte penale internazionale – per intenderci, è colui che ha spiccato i mandati di cattura contro il presidente Putin e una funzionaria del Cremlino – in un’intervista del 5 novembre ad Avvenire: “La forza dev’essere usata in modo da evitare danni, anche non intenzionali, a non combattenti e a beni civili. Se non è possibile distinguere, è vietato attaccare”. E ancora: gli “ordini di evacuazione” diretti dall’esercito israeliano alla popolazione del nord della Striscia di Gaza costituiscono il crimine internazionale di trasferimento forzato di popolazione. Forzato, nel senso che nessuno se n’è andato di propria volontà e verso una destinazione di propria scelta: tutti verso sud, peraltro anche bombardati sulle strade indicate come sicure e nei luoghi indicati come sicuri. Infine, aver sospeso per giorni – intorno al 10 ottobre – le forniture di beni essenziali quali cibo, acqua, carburante ed elettricità costituisce una punizione collettiva, che parte dal presupposto che due milioni e duecentomila persone della Striscia di Gaza siano responsabili dei crimini commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi, crimini di cui ovviamente non hanno alcuna colpa e che non hanno alcun mezzo per impedire.
Il 31 ottobre scorso i vertici dell’Unicef hanno dichiarato che “Gaza è diventata un cimitero per migliaia di bambine e bambini. Per tutti gli altri è un inferno”. Più che un crimine di guerra, non si tratta di un crimine contro l’umanità?
Starà al procuratore della Corte penale internazionale valutarlo, sulla base delle prove raccolte. Voglio ricordare che dal 2021 la procura della Corte sta svolgendo un’indagine sui crimini di sua competenza avvenuti nei Territori palestinesi occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est). La stessa procura ha recentemente dichiarato che l’indagine riguarderà anche i crimini commessi durante questo conflitto. In ogni caso, non esiste una gerarchia tra i più gravi crimini internazionali: crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono due categorie differenti ma i primi non sono meno gravi dei secondi.
In più report, Amnesty International ha documentato il regime di apartheid di fatto instaurato da Israele nella West Bank. Su cosa si fonda questa denuncia?
Siamo stati gli ultimi a farlo, nel febbraio 2022, dopo che di apartheid avevano parlato Ong israeliane (B’Tselem, Breaking the silence e Yash Din) e internazionali (Human Rights Watch) e persino ex primi ministri israeliani come Barak e Olmert. Il massimo obiettivo delle autorità israeliane, su cui vengono orientate storicamente le politiche e le leggi, è di mantenere una maggioranza demografica ebraica e massimizzare il controllo degli ebrei israeliani sulla terra, alle spese dei palestinesi. Per raggiungere questo obiettivo, successivi governi israeliani hanno deliberatamente imposto un sistema di oppressione e dominazione contro i palestinesi. Gli elementi-chiave che compongono questo sistema sono la frammentazione territoriale, la segregazione, il controllo, la confisca di terreni e proprietà e la negazione dei diritti economici. Alcuni esempi? Le restrizioni alla circolazione in Cisgiordania, attraverso una serie di posti di blocco e di chiusure stradali; la negazione della nazionalità ai palestinesi residenti in Israele, col conseguente status di inferiorità giuridica da cui discendono molte altre forme di discriminazione; la sistematica negazione dei permessi per costruire a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, che provoca ripetute demolizioni di abitazioni e sgomberi forzati; l’espansione degli insediamenti illegali – e la sempre più feroce violenza dei coloni, tollerata dalle autorità israeliane – che costringe i palestinesi a lasciare le loro case e li confina in enclavi sempre più piccole; la negazione del diritto dei rifugiati palestinesi a fare ritorno presso le loro terre d’origine; la negazione dei diritti sociali ed economici alla popolazione di Gaza attraverso il blocco illegale di Israele, in vigore da 16 anni.
Per i suoi rapporti e le sue puntuali denunce, Amnesty International è entrata più volte nel “mirino” delle autorità israeliane, tacciata addirittura di antisemitismo.
L’antisemitismo è in sé una negazione dei diritti umani e accusare un’organizzazione che i diritti umani li difende è illogico e ingiusto. È un’accusa priva di fondamento, che serve solo a distrarre dalle vere questioni. Amnesty International l’antisemitismo lo combatte e lo denuncia, come abbiamo più volte fatto con i nostri “Barometri dell’odio”, disponibili sul nostro sito. Purtroppo, quest’accusa colpisce chiunque critichi e denunci le violazioni dei diritti umani commesse dai governi israeliani. Mai come in questo conflitto, la narrazione è stata sbilanciata: una difesa inizialmente acritica dell’operato di Israele, solo in parte attenuata nelle ultime settimane; l’associazione tra popolazione di Gaza e Hamas; la derubricazione della questione palestinese a una mera fornitura di aiuti umanitari e non anche di diritti. Chi ha cercato, in queste terribili settimane, di utilizzare il vocabolario del diritto internazionale umanitario, ossia si è concentrato sulle azioni anziché sugli attori, si è preso quell’accusa e altre, ignobili, come quella di essere il portavoce di Hamas. Specialmente in quello stucchevole e tutto italiano format televisivo in cui giornalisti che non conoscono il tema fanno domande a giornalisti che non conoscono il tema e, gli uni e gli altri, impallinano il primo outsider che appare in collegamento. Ma siamo in buona e lunga compagnia: papa Francesco, il segretario generale dell’Onu Guterres e anche Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, al centro di attacchi vergognosi conditi da misoginia e mansplaining.
Alla mobilitazione del mondo solidale, di cui Amnesty International è parte attiva, corrisponde l’inerzia della politica.
C’è una piccola parte della politica che non è inerte, che promuove iniziative o vi prende parte. Poi succede – ma questo è un problema non della politica bensì del giornalismo – che il prendervi o non prendervi parte diventi la notizia principale, che oscura manifestazioni organizzate con grande fatica e poche risorse dalla società civile. Per il resto, prevale la narrazione dominante fatta di doppi standard: si condannano o si condonano le azioni a seconda di chi le compie; si compiangono o si ignorano le vittime, a seconda di chi le uccide; si rilancia il paradigma del periodo post-2001 secondo il quale per avere più sicurezza è necessario avere meno diritti.