Legalità e autoritarismo

Assalto alla Costituzione: così Meloni vuole cancellare l’identità repubblicana

Con la riforma presidenziale, la destra ha calato la maschera: l’obiettivo di Meloni e soci è decostituzionalizzare il nostro Paese, e cancellarne l’identità repubblicana. Ma sabato il Circo Massimo ha dimostrato che resistere è possibile

Editoriali - di Michele Prospero - 30 Novembre 2023

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La premier Giorgia Meloni
La premier Giorgia Meloni

Il Circo Massimo rivela che ci sono preziose energie nella società italiana grazie alle quali anche la mobilitazione per la difesa dei valori della Costituzione non è più una impresa disperata. Dinanzi a un disegno irrazionale e autoritario, l’obiettivo del fronte democratico deve essere quello di opporsi sino all’ostruzionismo in Aula, per poi affidare l’esito dello scontro al referendum.

Nel Pd, invece, si è già aperta una voragine con Franceschini che esorta, dopo qualche scaramuccia simbolica, a presentarsi con le mani alzate in vista di una mediazione. Il compromesso è l’anima della politica e rappresenta, da sempre, il cuore dei non-congressi del Nazareno.

Ci sono, però, due questioni essenziali in materia costituzionale che scavalcano la logica del negoziato e vanno affidate alla “zuffa”, senza confidare in sintesi accomodanti, giacché non ammettono acconciamenti: il primo punto fermo concerne la matrice storica della Repubblica; il secondo, il modello di democrazia scolpito nella lettera e nello spirito della Legge fondamentale.

Con la sua offensiva, Meloni vuole utilizzare il tragitto (in apparenza) legale della riforma minuta per determinare in realtà una (contro)rivoluzione. Oltre alla modifica incostituzionale della Costituzione – il governo straccia le prescrizioni della Consulta circa la illegittimità di un premio di maggioranza svincolato da una soglia minima ragionevole di voti ottenuti –, la destra tiene in serbo il proposito revanscista di cancellare le radici repubblicane affondanti nella lotta di liberazione.

Blindare nel testo costituzionale un meccanismo elettorale – quello del 55% dei seggi assegnato a un vincitore purchessia – palesemente illegittimo, che in un sol colpo incorona premier, deputati e senatori, non è una semplice provocazione rispetto al bon ton istituzionale, indica piuttosto un desiderio di frattura costituzionale, la ricerca della discontinuità a tutti i costi.

Ricorrendo alle manipolate forme della legalità, la destra intende de-costituzionalizzare la Repubblica. La risposta delle opposizioni non può trascendere una secca alternativa: o vince chi propugna la persistenza della Carta, la quale consente solo interventi di manutenzione (come la sfiducia costruttiva per garantire la governabilità), oppure prevale chi progetta il suo affossamento (con l’investitura di un capo al riparo da controlli, garanzie, vincoli, procedure).

La metamorfosi completa dell’assetto politico, che da parlamentare-rappresentativo diventerebbe presidenziale-immediato, non è perseguibile con le vie “legali”, perché si tratta di una trasfigurazione sostanziale incompatibile con le strutture portanti – i cosiddetti “principi supremi” – dell’attuale Costituzione.

Per edificare un’altra Repubblica non è ammesso il percorso della legalità, poiché è necessario transitare dal piano formale dei poteri costituiti (intrecci tra gli organi, bilanciamento delle prerogative, limiti e ruoli di custodia all’interno della cornice del ’48) a quello empirico del pouvoir constituant (introduzione di netto di un nuovo ordine).

Se Meloni brama – come dichiara – la “Terza Repubblica”, non può poi seguire il sentiero ordinario dell’articolo 138, che autorizza solo interventi incrementali, ma in modo conseguente deve trovare la forza per rivendicare un potere costituente, il quale – solo per vie di fatto – cammina sul cadavere delle vecchie forme per inventarne di inedite.

La Costituzione, come prodotto storico del farsi Stato della coalizione partigiana antifascista, può vedere alterato il proprio fondamento soltanto attraverso una pratica creatrice la quale, in virtù di un risolutivo esercizio di forza (ex facto oritur ius), sancisce la rottura della vigente legalità costituzionale affermando regole e valori nuovi.

A decidere l’urto tra l’originario potere costituente che si è cristallizzato nella Costituzione del 1948 (antifascismo, democrazia rappresentativa) e il novello potere costituente (regime del capo) sarà solo la frizione contingente, dal momento che non sono logicamente immaginabili punti di intersezione tra un assetto costituito e la volontà di potenza che pretende di sovvertirlo.

È esclusa ogni composizione coerente anche tra il governo rappresentativo, incardinato sulla mediazione del Parlamento, sulla considerazione dell’eguaglianza delle preferenze degli elettori nella definizione delle funzioni politiche, e l’avventura post-fascista all’inseguimento del capo, che prevede il plebiscito quinquennale su un organo monocratico, in aggiunta alla diseguale influenza attribuita a ciascuna espressione di voto.

Parlamentarismo e presidenzialismo (ma anche il premierato assoluto) appartengono a due sostanze politiche diverse, così che una conciliazione tra di loro è impensabile. Solo dentro la condivisione di uno dei due opposti schemi è possibile trovare un equilibrio per gli aggiustamenti e le sfumature.

Nessuna consonanza è perciò concepibile mescolando alla rinfusa i pilastri di organizzazioni del potere antitetiche (indicazione-elezione del presidente del Consiglio e sfiducia costruttiva). Se il regime è parlamentare, esso non può contemplare la designazione diretta del premier perché la vox populi annichilisce il sussurro delle Camere.

Se invece la forma di governo è presidenziale, con un capo dello Stato o un premier elettivo, il Parlamento non può conservare la prerogativa di dare o revocare la fiducia al vertice dell’esecutivo: l’autorità che promana direttamente dal popolo non può infatti dipendere da un congegno tipico dello stampo parlamentare. Un eventuale accordo, raggiunto su una forma di governo mista, non farebbe che complicare le cose rendendo l’ircocervo istituzionale ancor più illogico nella sua architettura.

L’esperienza reale, con un governo che tra l’altro comanda su tutto con decreti cui seguono raffiche di voti di fiducia, conferma come l’obiettivo della destra non si limiti ai ritrovati del “populismo penale” (norme anti-rave, stretta su migranti e rifugiati, narrazione securitaria dei micro-furti come primaria emergenza nazionale), ma coltivi il sogno illiberale di inaugurare una variante mediterranea di “democratura”.

Bisogna accostare la recente aggressione ministeriale al diritto fondamentale dei lavoratori, quello di sciopero in difesa di interessi legittimi, e la compressione del potere indisponibile del cittadino, quello di esprimere la rappresentanza sulla base del libero ed eguale consenso.
Già in occasione della battaglia per il salario minimo, la destra radicale aveva furbescamente spoliticizzato il contrasto sociale affidandolo alla sapienza “tecnica” del Cnel.

Dietro il velo della “neutralità”, l’oracolo di Villa Lubin, passato sotto le grinfie della coalizione nero-verde, emise allora il sollecito parere intonandolo alle sensibilità governative. Ultimamente a finire minacciato è stato addirittura il lavoro organizzato. Tutti i fogli di destra sono usciti in questi giorni con lo stesso titolo: Cgil e Uil “fuorilegge”.

Quando le nomine della Commissione di garanzia sul diritto di sciopero cadono nelle mani di personalità cresciute con i miti del radicalismo di destra, come i presidenti di Camera e Senato, è facile che i fisiologici conflitti sociali vengano dagli esperti d’area non solo combattuti, ma persino stigmatizzati come iniziative ostili che si collocano sul terreno della illiceità.

Gli inquilini occasionali del potere rivendicano un “plusvalore politico” in senso schmittiano ovvero l’opportunità, per chi detiene la maggioranza, di spingersi sino a collocare tendenzialmente fuori dal perimetro della legge le opposizioni sociali e politiche. È il “fascismo democratico” del terzo millennio, bellezza! I nazisti invasori diventano così, nelle parole della seconda carica dello Stato, una “banda musicale di semi-pensionati”, mentre i sindacati dei lavoratori si trasformano, per la stampa di regime, in associazioni criminogene, per il ministro dei Trasporti, in una manica di scansafatiche.

In presenza di formazioni sleali, che non si riconoscono nei principi del costituzionalismo democratico e che, proprio per farli saltare, abusano del principio di maggioranza, vengono minati gli spazi del pluralismo, gli istituti di controllo e di garanzia. Se il principale partito d’opposizione si incanta davanti al piffero poco magico di Franceschini, e va alla confusa ricerca della trattativa, lascia restringere le residuali possibilità di resistenza che l’ordinamento assicura.

Battersi in Parlamento per la tenuta della democrazia rappresentativa, e poi affrontare il passaggio del referendum costituzionale, è la sola strada per contenere le esibizioni muscolari di una destra che ormai senza più infingimenti mostra di voler calpestare i simboli della Repubblica.

30 Novembre 2023

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