Caccia allo straniero/4
Cosa c’è dietro la xenofobia di ieri e di oggi: “Via i neri, ci inquinano”
L’Italia è ferma a 1,34 nati per ogni donna. Siamo uno Stato medio-piccolo con un modello di welfare insostenibile con questi numeri. Ma la destra, invece di spalancare le porte agli “stranieri”, ci condanna al declino
Editoriali - di Mario Marazziti
L’Italia è un grande-piccolo, o piccolo-grande paese, capace di cose straordinarie. È a volte un mistero come questo sia possibile, con tale rapidità in tempi di incertezza e senza un “sistema Italia”, spesso con innovazione e qualità, quando da tempo gli investimenti nell’istruzione e nella ricerca languono, quelli sulla scuola ancor più, quando la lentezza della giustizia civile e la non linearità dei governi e delle scelte strategiche, l’assenza di una politica industriale riconoscibile, di certo non sono incoraggiamenti per gli investitori internazionali.
Eppure rimane un paese di media grandezza capace di cose straordinarie. Che raggiunge i suoi risultati anche senza mai utilizzare risorse disponibili, mondi immensi, che sarebbero gigantesche: i giovani, le donne, gli anziani, gli immigrati: vengono tutti, ciascuno, chiamati problemi, esattamente come l’immigrazione. È come se uno, l’Italia, la percorresse sempre senza un braccio o senza appoggiare una gamba. Sarebbe ora di trasformarli da problemi in occasioni, da emergenze a chance.
È impossibile, infatti, continuare a crescere ad alti tassi con una popolazione in età di lavoro mediamente più vecchia di quella dei paesi europei più simili a noi, Germania, Francia, Regno Unito, degli Stati Uniti, per non parlare dei grandi mondi giovani, Brasile o India. Ed è complicato anche conservare un alto livello di welfare – tanto più se non c’è un coinvolgimento innovativo della società civile e un nuovo welfare generativo di comunità – quando c’è un aumento rilevante della fascia di età più avanzata.
Anche se condivido la necessità di serie politiche per la famiglia e che rimuovano davvero alcuni degli ostacoli esterni che rendono la decisione di avere figli, penso che è impossibile, anche nel medio periodo, una inversione della curva dell’invecchiamento precoce e del saldo tra nuovi nati e decessi nella popolazione se il tasso di fertilità, come è da molti anni, è inferiore a due figli per ogni donna.
Come è noto, anche dopo venti anni di straordinario welfare per le donne e le giovani coppie, per i nuovi nati, la Francia è ancora lontana da questo obiettivo. L’Italia è a 1,34 nati o giù di lì per ogni donna. Il primo figlio si decide di farlo dopo i 30 anni e non c’è più nemmeno il numero sufficiente di donne tra i 20 e 40 anni sul totale della popolazione.
Può essere spiacevole dircelo, ma è un elemento che destra e sinistra dovrebbero non mettere sotto al tappeto. I grafici che descrivono la popolazione italiana da tempo non sono più la “piramide delle età”: una base grande, tanti bambini, giovani, e pian piano un assottigliamento man mano che l’età cresce.
Ma è un bulbo, con la pancia e il busto sempre più allargati e, davvero, nell’età della fertilità, indipendentemente dalle scelte personali, ci sono meno donne del passato, sul totale della popolazione. E non rinascono in un giorno, ma in decenni se tutto rimanesse come è oggi. Poi c’è il tema delle scelte personali, che dovrebbero cambiare radicalmente, e che è improbabile possano cambiare in misura significativa. Nel frattempo cambia, anche, il mondo.
È in questo contesto che, invece di farne un argomento decisivo per politiche di immigrazione accompagnata, di investimenti nella formazione e per favorire processi di integrazione, per includere, “adottare” i nuovi italiani nel miglior modo possibile, la narrazione si alimenta di una narrazione inversa ad hoc, autolesionista.
A una donna, laureata in arte, che a Bominaco, vicino L’Aquila, viveva a 500 metri da un capolavoro d’arte medievale, “la cappella Sistina d’Abruzzo”, sempre chiuso, e in un paese di 50 abitanti da 500 che erano, ho chiesto qualche anno fa come vedesse se qualche famiglia immigrata avesse riaperto e tenuto in vita qualche casa del paese e quel complesso artistico di valore mondiale favorendo il ritorno di un turismo colto e di pellegrinaggi.
E lei sarebbe stata anche la prima beneficiaria, per il nuovo flusso di persone e di turisti. Lì l’ultimo bambino era nato venti anni prima. La risposta è stata secca: “Perché? Ma anche no!”. Suicidio non assistito, dolce. È così, anche, che è nato l’argomento della “sostituzione” etnica. Se dobbiamo morire – meglio, se appassisce e implode la generazione dopo di noi (non proprio noi) – “meglio soli che male accompagnati”.
Eppure chi propone un’Europa di stati e non un’Unione Europea, chi ama la Nexit in Olanda, i confini nei Balcani, i reticolati in Polonia, chi si impegna per mandare in Albania chi arriva da fuori, i neo nazionalisti, utilizzano questo argomento per diffondere una nuova paura: quella della “sostituzione etnica”.
È autolesionismo, ma nel tempo brevissimo qualcuno sta a sentire, in nome dell’”Italiano vero” che non è mai esistito, non è mai nato su base etnica, linguistica, colore della pelle, lingua comune, visto che tutto è arrivato molto dopo.
Ne La Grande Occasione- che mi permetto di consigliare per gli auguri di Natale e per avere molti Natali davanti – a pag. 342, più di un anno fa – molto prima del rilancio della teoria della “sostituzione” da parte del “ministro che sussurra ai treni” quando non c’è la fermata – scrivevo: “L’immigrazione sarebbe da evitare a tutti i costi, perché arriverebbero ‘i barbari’”.
Non mi soffermavo, per brevità, sul fatto che la teoria la utilizzava con successo già Adolf Hitler, molto prima del 1933, quando convinceva masse di giovani che occorreva passare all’azione subito, prima che diventasse troppo tardi perché gli africani, cittadini francesi, si stavano prendendo già l’Europa per via legale.
Dicevo semplicemente: “Non è necessario insistere più di tanto sul fatto che questa politica muscolare, che chiede provvedimenti drastici, contiene una incertezza identitaria strutturale. Come se gli europei (e gli italiani) non avessero la forza culturale, sociale, economica, per non essere ‘inghiottiti’ da meno di un profugo, da meno di un rifugiato ogni 180, ogni 100 europei nei luoghi in cui i profughi sono di più: diventassero anche 5, 10, ogni 100 europei (e italiani) residenti, venti volte più di quanti sono oggi. Come se non si sapesse più trasmettere niente né sul piano dei valori che su quello dei modelli sociali, culturali, umanistici, religiosi. Rinunciando in partenza. Il sovranismo, l’ossessione identitaria, contiene ed è strutturalmente debolezza en travesti, mascherata, spaventata anche da gente che arriva indebolita, in ordine sparso, ‘assetata’ di Europa e di Italia”.
Dall’esterno, in realtà, arriva una grande occasione di rinascita e di ritrovamento di sé, della propria cultura, delle nostre radici umanistiche e solidali, della capacità inscritta nella nostra storia nazionale ed europea di diventare italiani, europei, mentre si è ancora “molteplici”, proprio perché si è molteplici, popoli, culture, cristiani, ebrei, musulmani, umanisti: Italia ed Europa, tutti i paesi.
C’è una via antica all’integrazione da riscoprire e da inverare, che è a disposizione, se si volesse riprendere, nel dibattito pubblico fin dal 2011, quando Andrea Riccardi l’aveva rilanciata da ministro al tempo delle ondate di profughi delle cosiddette “primavere arabe”: “L’integrazione italiana è – finora – la somma di milioni di adozioni. Pensando all’eccezionalità dell’adozione romana nel quadro della storia antica (per cui si poteva diventare facilmente cittadini dell’Impero), vorrei dare al nostro modello integrativo il nome di modello “latino”. In esso tutto si tiene: la storia, il presente, il futuro. L’italianità è il rapporto con l’alterità. In esso confluiscono la comunicatività partecipe dei nostri contesti rurali, la forza di una urbanitas colta e curiosa del mondo, una pietas cristiana. Certo, questo modello vuol dire un’integrazione poco istituzionale e molto familiare, con uno stato poco al passo coi tempi (…). Resta decisivo per questo il passaggio da una cultura diffusa a una politica di stato. L’integrazione necessita di una regia pubblica”.
Il governo e i politici si contraddicono molte volte, ma non si dice mai che prima ci si era sbagliati. Tutto e il contrario di tutto, scommettendo sulla distrazione, la dimenticanza, la confusione mediatica, la rassegnazione del “popolo”, nostra. Contraddirsi su questo e dire: “ci siamo sbagliati”, e cominciare a fare le cose ovvie, utili agli italiani, farebbe la differenza e darebbe speranza e futuro.
(fine quarta puntata – continua)