Il rapporto della diaspora ebraica con Israele. La guerra e una sinistra che non riesce a cogliere l’esistenza di una opposizione interna a Netanyahu che non viene meno neanche in questi tempi drammatici. E una critica, da nonna progressista, di sinistra, alla grande manifestazione delle donne di sabato scorso.
Temi scottanti, quelli che sono al centro dell’intervista a una grande intellettuale dell’ebraismo italiano: Anna Foa. La professoressa Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni; Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secolo; Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento; Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43; La famiglia F.
Non è ancora tempo di bilanci, perché la tragedia della guerra a Gaza, in Israele, è ancora in corso. Ma a quasi due mesi da quel drammatico, sanguinoso 7 ottobre, che idea ha maturato sugli eventi?
L’idea di una tragedia che non può aver fine se non cambiano alcune cose fondamentali, che sono in qualche modo speculari.
Vale a dire?
Una è quella della distruzione, almeno politica, di Hamas. Nel senso che sia messa in condizione di non nuocere ulteriormente. E l’altra, è quella della caduta del governo Netanyahu. Ambedue le situazioni impediscono, a mio avviso, che ci sia una qualsiasi soluzione, perché sono in qualche modo speculari. Hamas è stata favorita dalla scelta del governo Netanyahu di guardare soprattutto alla Cisgiordania e lasciare sguarnita la frontiera con Gaza. E prim’ancora il fatto che soprattutto i governi di destra, ma sia pur in misura minore anche quelli laburisti, hanno considerato l’Olp e i palestinesi più moderati, più pericolosi di Hamas. A Netanyahu un gruppo terrorista religioso sembrava meno pericoloso di un gruppo politico. Fino a che resterà al potere questo governo di estrema destra, la tragedia non avrà fine. D’altro canto, per Netanyahu l’unica possibilità che ha di restare in sella, al potere, è quella di vincerla questa guerra, non importa quanti morti faccia. Mi sembra che ci troviamo di fronte ad una impossibilità. Resta una speranza, che porta dritto alla pluralità della diaspora ebraica e della società israeliana.
Un tema cruciale, troppo spesso sottovalutato dai media nostrani. Di cosa si tratta, professoressa Foa?
Sono tante le voci in Israele che si levano contro il governo Netanyahu. E’ un Paese in guerra ma che non rinuncia a manifestare, a scendere in piazza. E questo è un segnale straordinario di maturità democratica. E’ come nell’82, quando oltre 400mila persone, una enormità per le dimensioni d’Israele, riempirono le piazze di Tel Aviv per protestare contro la guerra in Libano e il massacro di Sabra e Chatila, e contro il governo guidato da Begin e il ministro della Difesa Sharon. Una manifestazione oceanica in tempo di guerra E oggi la storia si ripete. Non è una piccola cosa. Vuol dire che c’è una opposizione convinta, determinata, coraggiosa. Si pensi ai parenti delle vittime e degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Hanno marciato, hanno criticato il governo. Mi sento un po’ strana io che sono sempre stata considerata anti israeliana, a fare questi discorsi. Il fatto è che la tragedia del 7 ottobre ha rinsaldato il legame tra Israele e la diaspora. Penso anche alle mie emozioni, ad esempio, di fronte alla morte del bambino di 10 mesi prigioniero di Hamas. Emozioni davvero molto forti.
Da intellettuale progressista, di sinistra, cosa direbbe alla sinistra europea e italiana?
Le direi di guardare innanzitutto al fatto che il mondo ebraico non è Netanyahu né il suo governo. Che ci sono stati dieci mesi di grandissime manifestazioni e negli ultimi due-tre mesi, prima del 7 ottobre, il problema dei territori occupati è emerso con molta forza. Si è parlato di “elefante nella stanza”, per spiegare quello che fino a quel momento non era emerso con forza. Di guardare al fatto che le vittime dell’aggressione del 7 ottobre sono persone che hanno lavorato con i palestinesi, con Gaza, per anni e anni. E che quello che Hamas vuole non è certo uno Stato palestinese plurale, democratico. Il suo obiettivo, oltre quello di cancellare Israele dalla faccia della terra, è di creare uno Stato teocratico, modello iraniano, in cui le donne, siano costrette a girare col velo, in cui nessuno abbia diritto di parlare ed esprimere in liberà le proprie idee. E i palestinesi che vivono in Israele, che hanno la cittadinanza israeliana, certo questo non lo vogliono. Direi loro di guardare con attenzione e senza pregiudizi o paraocchi ideologici la società israeliana. Una società mossa, piena di opposizioni, piena possibilità di reagire. Lo ha ampiamente dimostrato in questi mesi e credo che bisognerebbe rendergliene atto, anche se nessuno lo ha fatto. Nessun Paese ha mai fatto cose del genere. Dobbiamo rendercene conto e pensare che quello del 7 ottobre è stato un trauma fortissimo per la società israeliana, da tanti punti di vista, per l’inaudita violenza di quel che è successo, che da quel trauma ne è uscita sbandata ma che oggi si sta riprendendo con una opposizione che si ricompone. Se cadesse il governo Netanyahu e cambiasse la politica di vedere i palestinesi come tutti filo-Hamas, e si facesse qualcosa in favore dei territori e dell’Autorità Palestinese, e dei palestinesi israeliani, forse ci sarebbe la possibilità di uscire da questo cul de sac.
Professoressa Foa, cosa significa per Lei essere “amici d’Israele”?
E’ una parola che non mi è mai piaciuta. Non si è amici degli Stati. Ho sempre considerato la parola “amico d’Israele” come una cosa che non ha alcun senso. Tanto meno adesso. Se lo s’intende nel senso di avere considerazione di quello che è successo in Israele e di avere considerazione della realtà israeliana, che è molto più composita di quanto la sinistra estremista ma anche a quella che lo è meno, penso alla manifestazione delle donne, stia dimostrando, allora, forse, il termine “amico d’Israele” può essere non dico accettato ma può indicare qualcosa. Se invece lo s’intende nel senso tradizionale, dei fautori di un governo israeliano qualunque esso sia, senza se e senza ma, allora è meglio tenersene lontani.
Da donna progressista, femminista, cosa non l’ha convinta della manifestazione di sabato scorso?
Non parlare di quello che ha fatto Hamas in rapporto ad una iniziativa che si volge contro la violenza di genere, è una cosa per me inaudita. Quello che è avvenuto il 7 ottobre è l’ultimo episodio di una situazione in cui lo stupro di massa è considerato e usato come arma di guerra. Lo abbiamo visto in Bosnia, lo vediamo in Africa, lo abbiamo visto anche nella seconda guerra mondiale, anche se in misura forse minore. Se non si guarda a questo, allora cosa manifesti? Allora non parli del resto del mondo e non dici solo: siamo con il popolo palestinese. Il 7 ottobre, gli stupri e le mutilazioni delle donne, nella generale mattanza, sono stati organizzati, predeterminati e filmati dagli stessi miliziani di Hamas, che li hanno diffusi per aumentare la paura. Denunciare gli stupri di massa in una manifestazione di donna contro la violenza di genere era qualcosa di naturale. Innaturale è stato non farlo. E denunciare gli stupri di massa non significava schierarsi col governo Netanyahu. Il governo Netanyahu non ha fatto emergere volentieri questo fatto. Le denunce degli stupri di massa non vengono da parte governativa. Se non lo fai, vuol dire che hai ancora i paraocchi. Io ho molto apprezzato quello che ha scritto su Facebook Emanuele Fiano quando ha detto: io vado lo stesso alla manifestazione per parlare anche con tutte le difficoltà che questo comporta. Non so se è riuscito a farlo, non credo. Penso che sia stata una grande occasione sprecata.
Si parla ancora di una soluzione a due Stati. Ma come potrebbe nascere uno Stato di Palestina in una West Bank dove sono ormai quasi mezzo milioni, se non di più, i coloni israeliani insediati?
Dire oggi “due Stati, due popoli”, sembra essere una parola d’ordine che indichi una soluzione che non è certo quella di Netanyahu. Penso che oggi una soluzione non possa venire da Israele, forse potrebbe venire da alcuni Paesi arabi che però non mi sembrano molto interessati alla nascita di uno Stato palestinese. Può venire, ma anche qui il forse è d’obbligo, dagli Stati Uniti.
Ho molto apprezzato Biden che mi sembra un grande presidente che ha saputo prendere delle posizioni molto coraggiose, esponendosi personalmente, cosa che non si vedeva da molto tempo. Spero nel suo intervento.
In una delle ultime conversazioni che ho avuto con Abraham Yehoshua, lui che era stato uno dei più decisi sostenitori della soluzione a due Stati, argomentò il perché quella soluzione era divenuta impraticabile, e la sfida era quella di uno Stato binazionale.
Anche io per un attimo ho pensato che potesse essere una soluzione, anche se estremamente difficile e complicata. Ma quello che è successo il 7 ottobre e dopo lo rende impossibile. Si è tornati ai due Stati come unica scelta di fronte all’impossibilità di mettere insieme, nello stesso territorio, i palestinesi e gli ebrei israeliani. Una convivenza che forse modificata, riaggiustata, resa migliore, poteva forse essere possibile per Israele come uno Stato con il 22% di palestinesi cittadini israeliani, ma dopo quel che è successo mi sembra impossibile. Si è aperto un baratro che vedo con orrore, una faglia di odio di cui francamente non so immaginarmi la ricomposizione.
Israele rivendica con orgoglio l’essere l’unica democrazia del Medioriente. Ma come si può conciliare l’essere democratico con l’affermazione di una idea di Stato identitario dal punto di vista etnico-religioso?
Infatti l’opposizione che c’è Israele ha fortemente contestato l’affermazione identitaria che è stata portata a compimento dal governo Netanyahu. Uno dei passi verso la realizzazione di uno Stato teocratico ebraico, sul modello iraniano. In una delle manifestazioni si gridava: l’Iran è qua. Io vorrei ricordare, insisto su questo perché credo che sia davvero importante, che in Israele esiste una opposizione, perché mi sembra che la sinistra europea e italiana se lo dimentichi troppo spesso.
Professoressa Foa, si può dire che quelli che furono i valori fondanti del pionierismo sionista, il sogno di una Israele laica, non dominata dal messianismo religioso che si fa politica e Stato, Israele pienamente integrata in Medioriente, quel sogno non si sia spezzato definitivamente?
Il sogno è svanito. Se si leggono le dichiarazioni di molti dei sopravvissuti dei kibbutzim mi sembra di ritrovarlo in quel che dicono. Ma sono persone che hanno una lunga storia d’impegno politico nella scia di quel sogno. Non so quanto questo sia ancora possibile. Certamente da molti anni Israele non è più la Israele dell’inizio, l’Israele del sogno sionista. E’ una Israele diversa e adesso sarà un’altra Israele, ancor più diversa. Dovremmo impegnarci, tutti, a non farla diventare peggiore.
Lei è una intellettuale ebrea che ha avuto l’onore di scrivere per l’Osservatore Romano. Cosa pensa delle critiche rivolte dai rabbini italiani a Papa Francesco per aver taciuto, a loro dire, su Hamas?
Su questo penso che ci siano state delle esagerazioni, delle incomprensioni e forse anche delle occasioni mancate per essere più duri da parte della Chiesa e non solo. Non mi schiero con rabbini ma penso che qualcosa di più poteva essere fatto dal pontefice. D’altra parte si sa che fin dall’inizio del XX secolo, la Chiesa ha sempre assunto posizioni di neutralità in tutto: dalla Prima guerra mondiale, e poi dalla Seconda, a tutta una serie di conflitti e non solo a quello israelo-palestinese. Nel 1915 mise tra parentesi lo sterminio degli armeni che pure erano cristiani. E’ una linea che la Chiesa ha sempre perseguito. Ma in questo momento mi sembra uno dei problemi minori. Ingigantirlo mi sembra una forzatura.