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Intervista a Marcello Flores: “Mettere in crisi l’alleanza tra Hamas e Netanyahu per fermare la strage”

Lo storico Marcello Flores

Lo storico Marcello Flores

La guerra di Gaza. Il peso della memoria e la politica che alza bandiera bianca. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies

Sono trascorsi due mesi da quel tragico 7 ottobre che ha sconvolto Israele e aperto l’apocalisse a Gaza. Da storico e studioso di genocidi e di diritti umani, come definirebbe ciò che sta accadendo in quel martoriato luogo del pianeta?
Vorrei partire da una constatazione dolente. La maggior parte delle considerazioni fatte e dei giudizi tranciati hanno ridotto una vicenda complessa, e nella sua complessità drammatica, in un avvilente scontro tra tifoserie, per cui bisognava schierarsi da una parte o dall’altra. E questo ha impedito la comprensione non solo di quello che stava accadendo, ma ha anche influenzato, negativamente a mio avviso, giudizi morali, politici e giuridici che sono stati dati. Detto questo, farei due tipi di considerazioni. Come sempre nella storia, noi dobbiamo valutare l’evento che sta succedendo e il contesto in cui avviene. Senza privilegiare alcuno dei due aspetti. L’evento è stato l’attacco del 7 ottobre. Un fatto di una novità sconvolgente per chi l’ha subito. Una novità di rottura nella tradizione della lotta che c’era stata negli ultimi decenni tra Hamas e Israele. Questo è un elemento da rimarcare.

Perché, professor Flores?
Perché ha significato l’uccisione di israeliani in quanto ebrei attraverso un’azione paramilitare. Chiamare quelli di Hamas terroristi o altro è secondario. L’importante è che si è trattato di una operazione paramilitare pianificata.

C’è chi ha parlato di un immenso pogrom.
Non sono d’accordo. Pogrom è una definizione sbagliata, fuorviante. Pogrom dà conto di una folla che semi spontaneamente ha un moto di violenza omicida in una determinata situazione, che viene tollerata e magari anche supportata dalle autorità. Il 7 ottobre è altro. Qui c’è stata una preparazione di anni, un’azione militare in senso proprio. Detto questo, abbiamo il contesto. E il contesto è quello di una situazione in cui da almeno quindici anni, prevalgono da una parte e dall’altra, due poteri politici che sono contrari ad accettare la soluzione che le Nazioni Unite avevano indicato nel ’47, cioè quella dei die Stati. Netanyahu non la vuole e lo ha esplicitato più volte. Esplicitato e praticato.

A cosa si riferisce in particolare?
La colonizzazione dei territori – che ha favorito in modo enorme nella West Bank, con un numero incredibile, nell’ordine delle centinaia di migliaia, di coloni – di quello che è, o dovrebbe essere, il territorio dello Stato palestinese.
Quanto ad Hamas, continua a non riconoscere il diritto d’Israele ad esistere e pensa, agendo di conseguenza, che combattere tutti gli ebrei sia il centro della propria azione.
La differenza sostanziale è che mentre si può sperare che nelle prossime elezioni politiche in Israele Netanyahu venga sconfitto e si cambi la situazione, sull’altro fronte, non sembra manifestarsi la possibilità che i palestinesi possano scegliere una rappresentanza politica capace di riaprire un dialogo con la controparte israeliana per giungere ad un compromesso sostenibile da ambedue le parti. A meno che non venga imposto dall’esterno, rilanciando l’Autorità Palestinese di Abu Mazen, come sembra sia intenzione degli Stati Uniti. Ma incontrarsi a metà strada o lo si fa in due o non c’è via d’uscita. E da Israele, in verità, non è che giungano segnali rassicuranti.

Ad esempio?
Ho letto quanto affermato sul Corriere della Sera da un alto ufficiale israeliano, il quale sosteneva, senza mezzi termini o edulcorazioni dialettiche, che il rapporto di due civili uccisi per ogni terrorista eliminato, per noi è abbastanza buono. Una considerazione che non solo dovrebbe scandalizzare ma è anche il rifiuto totale di quelle che sono le logiche e i dettami del diritto internazionale e di quello umanitario. Pensare che un certo numero di civili si possano comunque uccidere, quando invece il primo cardine delle regole di guerra, è stato proprio quello di impedire l’attacco ai civili in qualsiasi forma, fa riflettere e riporta l’agire d’Israele ad azioni che si configurano come crimini di guerra. A tal proposito, va ricordato che una commissione voluta dalle Nazioni Unite già dopo l’operazione Piombo Fuso, nel 2009, era giunta alla conclusione che Israele aveva commesso crimini di guerra, come anche Hamas. E quelle conclusioni erano state rigettate sia dal governo israeliano sia da Hamas. Si tende ad accollare solo al nemico il compiere dei crimini di guerra, mentre le proprie azioni sono considerate autodifesa, da entrambe le parti.

Vale a dire?
Hamas proclama la resistenza armata come autodifesa all’occupazione e per liberare la Palestina, mentre Israele chiama autodifesa l’uccisione in massa di civili perché si vuole annientare Hamas che vuole distruggere Israele. Questo è il difficile bandolo della matassa. Il problema politico, prim’ancora che militare, è come mettere in crisi questa alleanza di opposti: il governo Netanyahu e Hamas, e spezzare così una spirale di violenza che altrimenti potrebbe proseguire per lungo tempo.

Dal fronte mediorientale a quello ucraino, per non parlare dei tanti conflitti “dimenticati” che hanno provocato centinaia di migliaia di morti e tragedie umanitarie senza fine. Il disordine globale è sempre più un disordine di guerra?
Il disordine globale sta nella mancanza di un nuovo patto internazionale, analogo a quello che si era sancito alla fine della Seconda guerra mondiale, e che si sarebbe dovuto rimodulare dopo la fine della Guerra fredda, con il riconoscimento non più di un mondo fondato su due super potenze ma su più potenze che dovevano in qualche modo riscrivere, attualizzandoli ma non cancellandoli, i principi su cui si era fondato il secondo dopoguerra. Cosa che non è avvenuta. Da parte degli Stati Uniti per la presunzione di essere l’unica superpotenza globale rimasta. Ricordiamoci le stupidaggini sulla fine della storia che hanno avuto tanto successo anche da noi.

E la Russia?
Da parte della Russia, di Putin in particolare, dall’inizio di questo secolo si è andata a consolidare una idea nazionalistico-imperiale, il panrussismo, in contrasto con i principi che l’Urss aveva sottoscritto alla fine della Seconda guerra mondiale. L’aggressione all’Ucraina rappresenta il punto estremo della rottura di quel diritto internazionale che anche ai tempi della Guerra fredda e della cosiddetta deterrenza nucleare, aveva retto il mondo per decenni.

Lo storico è il custode di una memoria collettiva. Quanto la memoria della Shoah, in campo israeliano, e la Nakba in quello palestinese, pesano nel conflitto senza fine israelo-palestinese?
La memoria pesa tantissimo ed è naturale soprattutto per le vittime e i loro discendenti. Trovo quasi inevitabile che non solo gli israeliani e i palestinesi, ma anche gli ebrei delle altre generazioni e della diaspora e figli o nipoti di palestinesi che vivono in Europa o in Occidente, abbiano un riferimento particolare nell’uno o nell’altro nella Shoah o nella Nakba. Dal punto di vista storico, non possiamo che ricordarli in modo complessivo. Sul piano storico, la Shoah è stata il culmine della rottura del diritto internazionale che il nazismo ha portato all’estremo.

E la Nakba?
È stata un momento terribile di quello che oggi si definirebbe una pulizia etnica, vale a dire cacciare dal proprio territorio persone di una etnia diversa. La qualcosa, sempre per verità storica, è avvenuta soprattutto quando Israele è stata attaccata dai Paesi arabi che non hanno voluto riconoscere la decisione delle Nazioni Unite dei due Stati, e con quella guerra d’aggressione intendevano impedire che Israele esistesse come Stato e si sono impadroniti, tra l’altro, di territori destinati ad essere quelli su cui edificare lo Stato di Palestina. Aver dimenticato complessivamente il ruolo nefasto svolto in quel momento dai Paesi arabi, e anche in momenti successivi, questa è stata una grande rimozione. Sia l’Occidente che l’Oriente, ai tempi della Guerra fredda ma anche in seguito, hanno cercato di accaparrarsi il beneplacito degli Stati arabi senza avere una politica di chiara condanna quando erano questi Stati i maggiori responsabili della mancata realizzazione dei dettami delle Nazioni Unite sui due Stati.

Cosa vuol dire essere oggi “amici d’Israele”?
Essere amico d’Israele credo che significhi essere amici del popolo israeliano e, per quel che mi riguarda, essere amico e sostenitore di quella parte che per quasi un anno, ogni settimana, ha manifestato in massa contro il governo di Netanyahu, quel movimento di resistenza democratico che oggi si manifesta attorno alle famiglie degli ostaggi. Quell’Israele che ritiene non solo possibile ma necessario, riprendere immediatamente una fase di dialogo per la costruzione di una pace fondata su due Stati, e una rapida decolonizzazione, con lo smantellamento degli insediamenti realizzati almeno negli ultimi dieci anni nella West Bank.

L’Europa, infine. Parliamo di noi. Per molto tempo si è detto e scritto che in Medioriente l’Europa era un gigante economico e un nano politico.
Purtroppo l’Europa manca di una visione unica in politica estera. In questo caso questo deficit è emerso con maggiore chiarezza rispetto, ad esempio, all’Ucraina, dove almeno erano state quasi del tutto silenziate, a parte l’Ungheria di Orbàn, le posizioni contrarie al forte sostegno all’Ucraina invasa. Il problema è che l’Europa deve trovare il modo per capire come agire in politica estera. Le forme non possono essere quelle di una unanimità paralizzante che porta, come nel caso mediorientale, all’impotenza. Ma questo dovrebbe essere, assieme alla costruzione di un esercito europeo, l’assoluta priorità che dovrebbe accompagnare la costruzione dell’Europa nei prossimi anni, insieme all’unificazione fiscale. Se l’Europa non riesce ad andare avanti su questi tre punti, e mi pare che Draghi l’abbia fatto capire molto bene nel suo lucidissimo intervento- lucido ma anche pessimista sul modo in cui l’Europa è oggi guidata – se non s’inverte questa rotta, l’Europa è condannata a restare un nano politico, sempre più marginale nello scacchiere internazionale.