La proposta della Lega
Cosa sono le gabbie salariali e perché sono inutili, Salvini torni a studiare…
Le retribuzioni su base territoriale sono durate dal Dopoguerra al 1972, spazzate via da questa e altre conquiste sindacali. Peraltro già oggi le paghe sono più alte al Nord.
Politica - di Cesare Damiano
Fino agli anni 60 le retribuzioni, in Italia, erano una vera e propria giungla.
Le cause di questa situazione eterogenea e frammentata erano, essenzialmente: le gabbie salariali che fissavano le retribuzioni su base territoriale; l’inquadramento professionale che prevedeva una gerarchia tra impiegati e operai: la più bassa qualifica degli impiegati era meglio remunerata e classificata della più alta qualifica dell’operaio specializzato; la disparità normativa, sempre tra impiegati e operai, che vedeva questi ultimi fortemente penalizzati su scatti di anzianità, Trattamento di Fine Rapporto, ferie, malattia e infortunio.
Un discorso a parte merita la distinzione di paga, a parità di mansione, tra uomini e donne, con i lavoratori in posizione di netto vantaggio retributivo, che venne superata con l’entrata in vigore della Costituzione il primo gennaio del 1948.
Il tema di queste disparità venne ripreso, è bene ricordarlo, da un libro all’epoca famoso di Ermanno Gorrieri, La giungla retributiva, edito dal Mulino nel 1972, che affrontò la situazione sotto il profilo della paga globale e dell’incidenza, sulle differenziazioni retributive, di superminimi individuali, premi aziendali, indennità e diritti accessori di varia natura.
Il superamento delle gabbie salariali e della diversa retribuzione uomo-donna
Le gabbie salariali nascono con un accordo firmato il 6 dicembre del 1945 tra industriali e organizzazioni sindacali e riguardano inizialmente solo il Nord. Nel 1954 il Paese viene diviso in 14 zone nelle quali si applicano salari diversi a seconda del costo della vita.
Tra minimo e massimo la distanza poteva arrivare fino al 29%. Nel 1969 si sancì, sulla spinta delle forti mobilitazioni degli operai, un superamento graduale del sistema che fu definitivamente abolito nel 1972.
Per quanto riguarda la differenza salariale tra uomini e donne e i limiti all’occupazione femminile, tipiche delle leggi e degli accordi sindacali dell’era fascista, furono superate, come abbiamo già ricordato, con l’articolo 37 della Costituzione: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
I Contratti Nazionali di Lavoro, da quel momento in poi, stabilirono la parità salariale, anche se il problema del cosiddetto gender gap esiste tuttora: si pensi solo alle diverse dinamiche di carriera e di inquadramento professionale.
L’avvento dell’inquadramento unico
Il terzo tema, quello della classificazione professionale dei lavoratori, entrò a pieno titolo nel dibattito sindacale a partire dall’inizio degli anni 70. La strada era stata aperta dalla contrattazione aziendale nelle cosiddette imprese a Partecipazione Statale.
Famosa fu l’elaborazione del Consiglio di Fabbrica dell’Italimpianti di Genova che anticipò le soluzioni che vennero successivamente adottate dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici del 1973, che sancì alcune normative di forte innovazione come l’Inquadramento Unico e le 150 ore di diritto allo studio.
Per la prima volta la classificazione professionale dei lavoratori definì un “intreccio” tra operai e impiegati e non più una sovrapposizione gerarchica. Il baricentro fu trovato nella quinta categoria che vedeva coesistere l’operaio specializzato con l’impiegato di concetto.
Stesso livello di inquadramento e retributivo con una “declaratoria” professionale per gli impiegati (caratterizzata dalla formula: lavoratori che svolgono, “con specifica collaborazione”, attività…; una per gli operai, che non prevedeva la “specifica collaborazione”, e una per gli intermedi, operai che aspiravano a diventare impiegati). Le declaratorie venivano accompagnate da specifici profili professionali ed esemplificazioni.
L’inquadramento unico diede una ulteriore spinta alla parità normativa tra operai e impiegati, già iniziata con i contratti del 1969. Per la precisione: il contratto dei metalmeccanici di quell’anno superò le differenze normative in caso di malattia e infortunio; quello del 1973 sancì le quattro settimane di ferie per tutti e la rivalutazione del Trattamento di Fine Rapporto per gli operai; infine, nel 1979, si conquistò la parificazione degli scatti di anzianità.
Un risultato notevole. Si pensi, per fare un esempio, che gli impiegati avevano diritto a 12 scatti biennali di anzianità al 5%, il che voleva dire una rivalutazione della retribuzione fino al 60%, mentre gli operai avevano soltanto 5 scatti e in cifra fissa. Tutte queste differenze furono spazzate via con le lotte sindacali degli anni 70 e a nessuno era venuto in mente, fin qui, di mettere la marcia indietro.
L’anacronistico ritorno alle gabbie salariali
Appunto, fin qui. Perché qualcuno, la retromarcia, la vorrebbe innestare, in particolare la Lega, che ci aveva già provato, senza successo, con Umberto Bossi, stoppato da Gianfranco Fini circa 18 anni fa. Ci ha riprovato Salvini con il Governo giallo-verde, ma niente da fare.
Adesso un varco è stato aperto con l’approvazione, alla Camera, di un ordine del giorno, notturno, sostenuto dalle forze di maggioranza, che torna a parlare di gabbie salariali, fatto passare al termine della discussione sull’emendamento di Walter Rizzetto, di Fratelli d’Italia, sul salario minimo, che già al suo interno contiene un esplicito riferimento a misure di incentivazione finalizzate a “favorire il progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello con finalità adattive, anche per fare fronte alle esigenze diversificate derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alla differenza di tale costo su base territoriale.”
Oltre all’ordine del giorno, che funge da apripista, un gruppo di senatori della Lega ha anche presentato un apposito disegno di legge. Ancora una volta ci troviamo di fronte alla pura propaganda di partito: si tratta, infatti, di una proposta priva di una qualsiasi razionalità politica e distante anni luce dalle vere esigenze dei lavoratori.
A noi pare che oggi si ponga all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del salario povero e non quello della ricerca di una sua differenziazione retributiva tra i territori: sia che si tratti della nota contrapposizione Nord-Sud, o di quella, per semplificare, tra città e campagna.
In primo luogo si tratterebbe di definire in base a quali parametri si dovrebbe stabilire questo incremento salariale a vantaggio di alcuni territori. Il riferimento è il costo degli affitti, dei generi alimentari e di quelli di prima necessità? Tutto qui?
Si sa che chi vive nelle grandi città spende di più per questi beni ma, per contro, dispone di servizi pubblici e privati, presidi sanitari, trasporti, cultura e tempo libero decisamente più a portata di mano.
Forse il parametro più appropriato è quello della qualità della vita: allora dovremmo aumentare le risorse e, quindi, i salari, alle famiglie che vivono nelle città (di solito si tratta di quelle meridionali) che sono presenti al fondo delle classifiche de Il Sole 24 Ore (quest’anno Foggia), al fine di compensare le fatiche di “una vita agra”. E, parimenti, toglierle a Udine, Bologna e Trento, che sono in vetta alla classifica del benessere.
L’idea proposta dalla Lega appare, più che altro, come un tentativo maldestro di consolare il proprio elettorato frustrato dalla mancata realizzazione delle promesse elettorali, a partire dalle pensioni, che vengono severamente penalizzate dalla legge di Bilancio, più che la volontà di conseguire un obiettivo di vera equità sociale.
L’argomento che viene utilizzato, poi, è alquanto discutibile: si pretenderebbe di inserire nei Contratti Nazionali pubblici e privati una clausola che suggerisce, a quelli pubblici, di adottare “trattamenti economici accessori collegati al costo della vita dei beni essenziali … nel rispetto dei vincoli di bilancio…”, e una quota di risorse pari a 100 milioni all’anno, con un massimo di 3.000 euro procapite, da destinare alla contrattazione aziendale o territoriale dei settori privati sempre al fine di conseguire l’obiettivo del ripristino di improbabili gabbie salariali.
Non si tratta, peraltro, di un grande sforzo: se si devolvessero, per ipotesi, 1.000 euro all’anno a ogni dipendente (84 euro al mese), verrebbero coinvolti in tutta Italia 100mila lavoratori, lo 0,6% degli oltre 15milioni di dipendenti privati. Tanto rumore per nulla. Ma, a parte questo dato, tutti dovrebbero sapere che la contrattazione aziendale contiene già una distribuzione geografica che privilegia le Regioni del Nord.
Secondo una ricerca di Adapt sui contratti aziendali, questo è il risultato: il 65% degli accordi è stipulato al Nord, il 30% nelle Regioni del Centro e il restante 5% nella macro-area Sud e Isole. In sostanza, laddove applicata, la contrattazione di secondo livello provvede ad integrare salari e tutele ai lavoratori che vivono nelle aree più industrializzate, con maggiore produttività e nelle quali il costo della vita è più alto.
Al di là dei valori salariali stabiliti dai contratti, le retribuzioni reali del Nord sono già significativamente più alte rispetto al resto del Paese. Il problema è, semmai, quello di estendere la contrattazione anche al Sud svantaggiato e alle imprese di più piccola dimensione, le più resistenti nei confronti dell’adozione degli accordi aziendali e soprattutto territoriali.
Non a caso il terziario, estremamente polverizzato, rappresenta appena il 7% dei contratti di secondo livello stipulati. Rimane il nodo del Pubblico Impiego.
In questo caso, ai senatori della Lega che propongono un disegno di legge che prevede “trattamenti accessori collegati al costo della vita dei beni essenziali” distinguendo tra “aree metropolitane, urbane, suburbane, interne e di confine”, occorre ricordare che già oggi la contrattazione decentrata nella Pubblica Amministrazione consente interventi ad hoc, per le singole amministrazioni, a partire da quelle più virtuose, ma che il problema, semmai, è quello di avere risorse sufficienti, che attualmente non ci sono.
Se, come prevede la proposta di legge leghista, l’erogazione di questi “trattamenti economici accessori” dovrà avvenire nel rispetto “dei vincoli di bilancio”, si comprende immediatamente l’imbroglio: significa fare le nozze con i fichi secchi.
Conclusione
La propaganda, in politica, ha preso il sopravvento ormai da troppo tempo. Se l’obiettivo è illudere i propri elettori sperando di mantenere consensi sempre più traballanti e in fuga costante, l’obiettivo di accrescere il bene comune si perde di vista.
Oggi la priorità sarebbe quella di affrontare il tema del lavoro povero, della precarietà, del mancato incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, della fuga dall’Italia dei cervelli più formati a spese dello Stato e delle famiglie. A tutto questo la risposta della Lega è il ritorno a forme ridicole e propagandistiche di gabbie salariali e all’autonomia differenziata.
Si vuole riandare all’Italietta divisa tra serie A e serie B: non ci sembra un grande obiettivo politico tornare indietro di sessant’anni. Anche per questo abbiamo voluto ripercorrere un po’ di storia delle conquiste sociali dal dopoguerra ad oggi, per rinfrescare la memoria agli attuali governanti. E suggerire, sottovoce, un rapido ripensamento.